21 Novembre 2023

Roma, studentessa israeliana denuncia il pesante clima di antisemitismo nelle università italiane determinato dalle organizzazioni pro pal

Fonte:

la Stampa

Autore:

Luca Monticelli

La paura di essere ebrea

La studentessa Hadar Yanoos non si sente più sicura a Roma “Il clima è cambiato, molti di noi hanno timore di andare in facoltà, ci hanno consigliato di non farci riconoscere”

Il crescente antisemitismo nelle università non è solo un fenomeno americano, dove le recenti manifestazioni pro Palestina sono spesso sfociate in una legittimazione dei massacri di Hamas del 7 ottobre e in aggressioni verbali e fisiche nei confronti di studenti di religione ebraica. Anche in Italia, purtroppo, il clima negli atenei è sempre più ostile verso i ragazzi israeliani. «Abbiamo paura, la situazione è cambiata da un giorno all’altro», racconta a La Stampa Hadar Yanoos, studentessa del quinto annodi un istituto privato a Roma e rappresentante degli studenti israeliani di Medicina che si trovano nel nostro Paese. Dopo l’inizio del conflitto a Gaza, si sono moltiplicati insulti ed episodi di intolleranza. L’osservatorio del Cdec, il Centro di documentazione ebraica di Milano, ha registrato segnalazioni di giovani percossi solo per il fatto di portare una catenina con la stella di David e di altri minacciati con volantini o scritte nei bar fuori dalle facoltà. Nelle università di Torino, Napoli e Padova i comitati studenteschi hanno invitato a tenere conferenze Leila Khaled – ex militante del gruppo terroristico del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – che negli Anni 70 partecipò al dirottamento di due voli aerei. A Bologna, sede dell’accademia più antica del mondo occidentale, è apparso uno striscione che recita «Fuori Israele dalle università». Slogan che è diventato una petizione, ripreso da 4 mila tra professori e ricercatori che hanno proposto di boicottare la collaborazione con i docenti israeliani. «In Italia ci sono città e posti in cui ci sentiamo più sicuri ed altri meno. Io ho molti amici che non vanno più in università da settimane perché non si sentono a loro agio», continua Hadar. «Questo è un grosso problema perché per noi frequentare il corso è obbligatorio, quindi se non andiamo a lezione potremmo rischiare di perdere l’anno». I rettori non sembrano aver capito le difficoltà e le paure che vivono questi ragazzi: «Sfortunatamente non otteniamo molta comprensione dagli istituti». Nella maggior parte dei casi, spiega la giovane studentessa israeliana, «l’antisemitismo è diffuso tra gli studenti stranieri, originari del Nord Africa, non tra gli italiani. Però mi spaventano le manifestazioni in piazza, quando ci sono i cortei mi sposto solo da casa alla facoltà e ritorno, senza passare per il centro di Roma». E racconta di un fatto avvenuto in una classe che l’ha scioccata: «Uno studente di Medicina di origine egiziana ha pubblicato sui social la foto di Hitler con un commento che incita a fare del male agli ebrei, a massacrarli, a rendere loro la vita impossibile. Ci siamo lamentati con l’università ma ci hanno risposto che non possono fare nulla. Penso sarebbe importante che almeno in casi come questi i rettori facessero una dichiarazione, prendessero una posizione pubblica, trovo assurdo che nessuno reagisca. Come possiamo sentirci al sicuro sapendo che una persona che frequenta medicina scrive che è giusto uccidere gli ebrei?». Per non rischiare di subire violenze questi ragazzi non possono vivere una vita normale: «Dalla comunità ebraica e dall’ambasciata ci è stato detto di non farci riconoscere come israeliani per garantire la nostra sicurezza, di non parlare ebraico ad alta voce in pubblico, di togliere le mezuzah dalle case. Cambiamo i caratteri sul cellulare dall’ebraico all’inglese, persino i nostri nomi sulle App del cibo d’asporto e gli account sui social… E’ molto triste ma dobbiamo farlo». Hadar rivolge un appello ai suoi coetanei italiani: «Trattateci come amici, vi prego, non come soggetti coinvolti nella politica in Medio Oriente, stateci vicini e chiedeteci come stanno le nostre famiglie in Israele, sarebbe un bel sostegno per noi». E allo stesso tempo chiede anche alle istituzioni universitarie un supporto organizzativo: «Ci sono miei colleghi israeliani che sono partiti come riservisti nell’esercito, hanno dovuto farlo per legge, ma alcune università non se ne sono preoccupate, potrebbero almeno dare qualche risposta sulla frequenza, chiedere agli studenti se hanno bisogno di aiuto, se hanno paura».