2 Febbraio 2020

Smascherato un falso testimone di Auschwitz

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Roberta Polese, Andrea Priante

«Ad Auschwitz non c’era» L’archivio storico ebraico e il caso del finto deportato

Padova, lui insiste: non mento. Segre prende le distanze 

PADOVA Samuel Artale von Belskij Levi, 83 anni, è un ingegnere di Padova che gira per scuole e teatri commuovendo chiunque lo stia ad ascoltare coi racconti di quando lui, bambino ebreo deportato ad Auschwitz, fu costretto dai nazisti a frugare nei cadaveri per rimuovere i denti d’oro o a rubare cibo per gli altri prigionieri ebrei. Ma la fitta agenda dei suoi appuntamenti si è bruscamente interrotta: annullato l’incontro con un’associazione di Meolo previsto per oggi, sospese le conferenze. «La sua è una falsa testimonianza», ha stabilito Gadi Luzzato Voghera, il direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano che per mesi ha indagato sulla narrazione di Artale partendo da una serie di errori contenuti nel libro autobiografico «Alla Vita», in cui racconterebbe la tragica esperienza nel lager. È saltato fuori che l’ingegnere non è nato a Rostock da una famiglia ebreo-prussiana, come ha sempre detto, ma in provincia di Cosenza. E non si chiama neppure Samuel ma Gaetano e avrebbe lavorato in Nigeria prima di trasferirsi in Veneto. li suo nome non compare negli archivi internazionali dei perseguitati dal nazismo di Bad Arolsen. «Non ci serve una memoria spettacolo», taglia corto Luzzato Voghera. Il rabbino di Padova, Adolfo Locci, mette le mani avanti: «il tema dello sterminio è già stato macchiato a sufficienza, non dobbiamo avere anche storie inventate». Ma intanto, Artale non arretra. Ieri, girando per casa aggrappato al suo bastone, ha continuato a negare di essere un impostore. «Le prove sono da qualche parte giù in cantina ma solo la mia segretaria sa dove». Mostra una carta d’identità con su scritto: Gaetano Artale nato a Cosenza. «E’ solo una registrazione più recente — si giustifica — li ho i documenti di Rostock, dove risulto chiamarmi Samuel Artale von Belskoj Levi…». Nel suo libro, ricorda «il momento che sono venuti a prenderci, sono entrati con la forza in casa, violando per sempre la nostra intimità» e la vita nelle baracche di Auschwitz «con i cadaveri ammassati, parassiti e topi ovunque. Dovevi resistere, perché se i soldati notavano sul tuo volto i sintomi dell’infezione venivi assegnato alle camere a gas». Stando alle ricerche di Luzzato Voghera, sarebbe tutto inventato. La questione è delicatissima. Lo sa bene chi nel lager c’è stata davvero: Liliana Segre aveva inviato un messaggio letto in occasione di un incontro organizzato dal Comune di Cessalto (Treviso). Peccato che la senatrice avesse accettato di dare il proprio contributo «solo dopo che l’amministrazione aveva espressamente assicurato che Artale non sarebbe stato presente». E invece, per lui era stata l’ennesima occasione di emozionare il pubblico. «Lo scorso anno il Centro di documentazione ci aveva avvertiti del sospetto che quell’uomo fosse un impostore, per questo mia madre non aveva voluto accostare la propria testimonianza alla sua» racconta il figlio, Luciano Belli Paci. «Purtroppo all’incontro lui era presente. E’ grave: se i millantatori si insinuano nella Shoah diventano una trappola micidiale nelle mani dei negazionisti. Anche se questa è la storia di una ricerca che dimostra come non ci sia crimine più documentato di quello avvenuto nei campi di sterminio».