Fonte:
Osservatorio antisemitismo
Autore:
Alberto De Antoni
Opere sui Sonderkommando
Se tutto è genocidio allora nulla è genocidio. Tale affermazione deve essere continuamente ribadita, oggi più che mai alla luce degli eventi contemporanei e della superficialità dei mass media, affinché la grande catastrofe del Novecento non perda unicità negli studi di storia e nella memoria collettiva europea. Al di là di un’immensa bibliografia saggistica vengono incontro al ricordo le numerose testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah, in particolare quelle degli otto sopravvissuti al Sonderkommando di Auschwitz raccolti in Wir winten Tränenlos (“Abbiamo pianto senza lacrime”), a cura di G. Greif, Frankfurt a.M. 1999 (Non vidi). Tralascio, in questo contesto, le testimonianze dei rarissimi sopravvissuti dei campi di sterminio di Chelmno, Bełżek, Treblinka, Sobibór se non per citare, per gli ultimi due, l’ottimo libro di G. Sereny, In quelle tenebre, Milano 1975.
Delle otto testimonianze alcune sono state pubblicate in singolo testo (M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, Milano 1973; F. Müller, Trois ans dans une chambre à gaz d’Auschwitz, Paris 1980; S. Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Milano 2008). A queste si aggiunge ora Alter Fajnzylberg, Cosa ho visto a Auschwitz, Torino 2025 (ed. or., Paris 2025).
L’Autore (Stoczek 1911-Parigi 1987), nato in una famiglia ortodossa numerosa e povera, aderì ben presto al partito comunista polacco e combatté nella Brigata Internazionalista Dombrowski durante la guerra civile spagnola. Esule e detenuto in Francia come ex-combattente straniero, fu quindi internato nel famigerato campo di Drancy e da qui deportato a Auschwitz dove, dopo una serie di spostamenti, fu destinato al Sonderkommando dell’apparato di sterminio. Molto probabilmente giocò a favore della sua sopravvivenza l’aver fatto parte di uno dei primi convogli (marzo 1942) partiti dalla Francia. In questo modo potè, come anziano del campo, stabilire relazioni tra i primi detenuti non ebrei (il campo divenne solo più tardi il centro di annientamento di massa nell’ebraismo) e rendersi indispensabile come esperto a vario titolo. Nel campo partecipò anche alla Resistenza e alla ben nota fallita rivolta del Sonderkommando nell’autunno del 1944. Fuggitivo durante le tremende marce della morte riuscì a nascondersi fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Dopo la guerra intraprese da subito l’attività di testimone sin nelle prime inchieste alleate, culminata nei processi ai criminali di Auschwitz, a Cracovia prima nel 1947, a Francoforte poi nel 1963-1965. In seguito partecipò a diverse inziative volte alla divulgazione e alla comprensione della storia di Auschwitz. Visse a Parigi dove lavorò come sarto definendosi sempre polacco, comunista e ateo.
A differenza degli altri testimoni, cui è stata data la possibilità di compiere una narrazione temporale e coerente o che hanno affidato il proprio ricordo a dei redattori, in queso caso i curatori del testo (il figlio Roger e lo storico Alban Perrin), peraltro con un lavoro filologico ineccepibile, hanno preferito lasciare l’ordine espositivo dei quattro quaderni di appunti scritti tra l’autunno del 1945 e l’inizio del 1946 e trovati in una scatola di scarpe. Felice intuizione dal momento che gli scritti ben rendono il flusso di memoria e di emozioni che un sopravvissuto – tanto più se proveniente da un Sonderkommando – poteva conservare. Che cosa era più importanta ricodare? Le proprie vicissitudini? Gli episodi di crudeltà? I nomi dei carnefici e dei membri della Resistenza del campo? Il meccanismo di sterminio? Il computo dei morti? L’autore offre perciò una descrizione frammentaria, talvolta anche ripetuta e con errori, quasi avesse voluto concentrarsi con precisione su ogni dettaglio senza voler però trascurare il quadro generale. Operazione impossibile, nella realtà dei fatti, ma comprensibile se letta alla luce di una vita spezzata che cerca di annotare qualcosa di mostruoso che, per definizione, è irrappresentabile.