28 Agosto 2018

Nuova edizione del saggio di Michele Sarfatti Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione edito da Einaudi

Fonte:

La Stampa

Autore:

Mirella Serri

Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti

Lo storico Michele Sarfatti aggiunge nuovi documenti del 1940 sul destino degli internati nel campo italiano

Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni. La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.

Lo spettro della Polonia

Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei… significa la loro condanna a morte». Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi) . In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.

Tutto precipita

I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta: tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud. Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei». Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire. «Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.