16 Settembre 2020

Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione CDEC, commenta il fenomeno dei discorsi di odio su TikTok

Comunità ebraica contro la sfida social sulla Shoah. E TikTok disattiva l’hashtag

Migliaia di ragazzi imitavano i deportati. La presidente delle Comunità ebraiche: “Così si banalizza la tragedia”. Lo psicologo: “Ogni mezzo per catturare l’attenzione è considerato legittimo”. Una giovane: “Ma io l’ho fatto per mia nonna”

“Un giorno ci hanno detto di andare alle docce, mia madre ed io ci tenevano per mano”. Ragazze dai volti truccati per renderli pallidi, sofferenti, raccontano attimi di vita nei campi di concentramento come se camminassero in quei luoghi da incubo, come se fossero loro  giovani ebrei vittime delle persecuzioni dei nazisti.”Sono morta nelle camere a gas”,  recita un’altra dalla maglietta bianca come il volto.

E’ l’ultimo trend dei video di TikTok, la piattaforma amata dai giovanissimi  della generazione Z, cresciuti col telefonino in mano e social come via di comunicazione di vita, pensieri.  Omaggio, ricordo, esibizionismo?  Quella che è diventata una mania, una gara, una sfida spinta all’estremo divide, raccoglie critiche, commenti pieni di dubbi da parte di psicanalisti e psicologi che parlano di  pornografia del dolore, di una ricerca senza limiti in cerca di popolarità. E una condanna dagli storici, da chi lo sterminio l’ha vissuto, subito.  Il Memoriale di Auschwitz si è espresso negativamente ritenendo questa tipologia di messaggi dannosa e offensiva: “Alcuni video sono pericolosamente vicini o hanno già superato la linea di trivializzazione della storia.” Tanto che TikTok ha disattivato l’hashtag #HolocaustChallenge.

L’orrore in 15 secondi

I mini video di quindici secondi girati da migliaia di adolecenti di tutto il mondo hanno imperversato sulla piattaforma social per settimane da quando si è scatenata la sfida con l’hastag #HolocaustChallenge  in cui i ragazzi fingono di essere vittime dell’Olocausto. Hanno quindici, sedici anni, il 70 per cento degli utenti il social ne ha meno di 24. Cosa sia la Shoah l’hanno imparato a scuola, ma qualcuno di loro l’ha sentita ricordare in casa, dalla nonna, dalle parole dei bisnonni sopravvisuti ai lager. Ma sono loro a parlare in prima persona, azionano il telefonino puntando la telecamera sul proprio viso e parlano come  fossero le vittime, raccontano dal punto di vista di chi ha subito. Di chi non c’è più. “Volevo condividere la storia di mia nonna ebrea per far arrivare la tragedia dei campi a tutti e diffondere consapevolezza”, dice una di loro. Parole che fanno pensare. Per questo il fenomeno è ancora più difficile da capire, da analizzare, per stabilire dove supera il confine dell’omaggio, della memoria, per diventare sensazionalismo.

Di Segni: “Ma la Memoria non è uno show”

La convinzione degli esperti è che difficilmente brevi filmati di TikTok possano esperimere drammi così complessi  e diventare un omaggio alle vittime della Shoah. “Noi abbiamo la sfida di creare un progetto della Memoria per giovani ma dobbiamo evitare banalizzazione, spettacolarizzazione. Ci vuole complessita, profondità, nozioni ed emozioni. Tutte cose che non si possono elaborare in un micro video. E’ vero che questo è il linguaggio dei ragazzi, dei nativi digitali, ma bisogna evitare che si appiattisca tutto in un’emozione che dura solo tre secondi, che poi si spegne”, dice Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche.  “In Israele, dove sono cresciuta, e dove non tutti gli ebrei l’hanno vissuta, alla Shoah è dedicato un solo giorno in tutto l’anno, ma l’attenzione è profonda, pensata, concentrata. E una giornata sola  è bastata a far passare l’importanza della Memoria. Di più non vuol dire meglio, sparsa cosi in rete in modo light resta solo superficilità”.

Lo psicologo davanti a 17 milioni di visualizzazioni

Tanto che c’è chi parla di gusto macabro per la tragedia mentre gli psicanalisti sottolineano come per essere notati, per attirare like, catturare attenzione, i giovani siano portati sempre di più a gesti estremi. Non importa l’argomento, l’importante è essere al centro, dissacrare, insultare mostrare. Tutto per esistere, anche se solo in Rete. “Questo trend mi ricorda il tema centrale sull’uso dei social, legato alla popolarità, non credo sia connesso o all’assenza di valori anche se, col passare del tempo, sarebbe bene che sui fenomeni storici si lavorasse sulla memoria. La realtà è che abbiamo costruito un sistema basato sulla ricerca di audience ed è anche colpa nostra: li abbiamo cresciuti con il mito, la ricerca della popolarità e del consenso da quando sono all’asilo e devono avere tanti amici, essere invitarti a tutte le feste se non è un dramma. Un rapporto col mondo che è un iperinvestimento su di sé, che porta a spettacolarizzare, estremizzare pur di  avere seguito. Ormai  l’esperienza ha senso solo se la si comunica, se si hanno like. E allora va bene tutto, e se la Shoah è un argomento popolare che può darmi visibilità la uso. Credo che il punto sia questo,anche se sicuramente ci sarà chi tra loro in buona fede vuole comunicare condividere la tragedia” dice Matteo Lancini psicologo, psicoanalista e presidente della Fondazione Minotauro (che si occupa di adolescenti) e docente alla università Milano Bicocca. In effetti, il tag #holocaust ha più di 17,4 milioni di visualizzazioni, mentre #olocausto ne ha 118.6 mila. Come dire, se ne parlo ho un potenziale bacino di utenti milionario.

“Online anche bambini che insultano gli ebrei”

Betti Guetta, dell’Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica, che studia da anni il fenomeno dell’hate speech online, concorda: “Essere nativi digitali non significa necessariamente essere alfabetizzati digitali; talvolta la distinzione tra il mondo reale e quello digitale appare sfumata. Desiderio di ricordare e commemorare qualcosa o qualcuno divulgando immagini sui social – sottolinea la studiosa – può essere una scelta discutibile. Abbiamo fatto una lunga ricerca online e trovato non solo video di ragazzi che si fingevano deportati, ma persino bambini di dieci anni che giravano immagini con derisioni, insulti agli ebrei, ai  disabili. Sono rimasta basita c’è chi dice che è un modo di reagire al dolore indicibile, ma non so, forse la spiegazione crea saturazione? Dubito. L’anno scorso c’era persino una chat chiamata holocaust party tra i ragazzi delle medie. In Italia il problema è anche un altro: cercando la parola ebrei su TikTok, le quattro hashtags con più visualizzazioni sono #ebrei (590 mila visualizzazioni); #poveriebrei (20 mila visualizzazioni); #ibambiniebrei (18 mila visualizzazioni) e #ebreialforno (7 mila visualizzazioni). L’Osservatorio Antisemitismo su questa piattaforma ha individuato una trentina  di video in cui ragazzi recitano la parte di vittime dell’Olocausto, o ancor peggio ironizzano su “ebrei al forno”,“gas”. Deridono la Shoah. Colpisce e preoccupa l’età di questi protagonisti che in alcuni casi sembrano minorenni e talvolta under 12. L’impressione è che alzano l’asticella, il livello della provocazione per attirare l’attenzione: tra i tanti video che ho guardato per capire c’era persino chi  fingeva di essere stato violentata in un campo di concentramento. Le battute e queste brevi ‘drammatizzazioni’ della Shoah possono essere collegate al fenomeno del Trauma porn – che si riferisce al fascino perverso per le sfortune altrui”.