14 Settembre 2014

Testo dell’intervento di Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione CDEC, al teatro Franco Parenti di Milano in occasione di Jewish and the City

Fonte:

Osservatorio antisemitismo

Autore:

Betti Guetta

Il pregiudizio impedisce il dialogo, blocca il confronto. In che modo possiamo liberarci dal pregiudizio verso gli altri e verso noi stessi?

Mi sono chiesta se l’intervento che sono chiamata a fare qui e ora sarebbe stato diverso da quello che avrei potuto fare solo due mesi fa.

Penso proprio di sì. Molti avvenimenti tragici stanno attraversando il mondo e ci disorientano. Forse qualche tempo fa sarei stata più fiduciosa, ottimista, forse più coraggiosa.

Avere dei pregiudizi – cosa comune a molti di noi (forse a tutti) – significa avere un atteggiamento pre-venuto, di chiusura, di indifferenza, di poco interesse verso ciò che non ci riguarda da vicino. La nostra casa, la nostra vita, il nostro cerchio ristretto di familiari e amici a volte il nostro paese, percepito come un’entità sempre più astratta e lontana.

Il resto è spesso solo uno sfondo, è ALTRO, un altro non necessariamente diverso o nemico, ma senza dubbio altro da noi. Estraneo a noi.

Avere pregiudizi vuole dire essere prigionieri dei nostri preconcetti, dei nostri stereotipi, dei nostri luoghi comuni, vuole dire non essere pienamente liberi e limitare la libertà di “essere” degli altri.

Il meccanismo del pregiudizio si basa sulla necessità di leggere una realtà  differenziata  e complicata attraverso una procedura di semplificazione e organizzazione delle conoscenze. Stereotipi e pregiudizi tendono a banalizzare la realtà, cancellandone così la molteplicità, l’ambivalenza, la storicità. Essi si presentano spesso nella forma della generalizzazione arbitraria, della tendenza a etichettare un gruppo o un’insieme di persone sulla base di alcuni tratti, pochi e standardizzati. E a designare tutti gli individui che lo compongono attraverso questi scarsi elementi: tutti gli ebrei sarebbero  legati al denaro, tutti i musulmani potenziali terroristi, tutti i Rom accattoni e rapitori di bambini, tutti i “clandestini” possibili delinquenti. Gli “altri” sono così cancellati come individui, come persone nella loro unicità e singolarità.

Una volta costruiti i pregiudizi tendono a permanere immutati  condizionando le dinamiche cognitive di percezione della realtà.

La tendenza alla generalizzazione  porta a considerare i tratti distintivi di un gruppo molto più presenti ed evidenti di quanto siano in realtà.

All’interno di una categoria tutti sono considerati uguali tra loro: donne, vecchi, bambini, analfabeti o laureati, disonesti o cittadini integerrimi.

Disaggregare tutto ciò e disinnescare il suo potenziale di minaccia non è facile perché il pregiudizio non è solo ed esclusivamente un meccanismo regressivo. È qualcosa che affonda le sue radici nel profondo del pensiero umano.

Qualunque elaborazione – a partire da quello degli intellettuali, degli studiosi, degli scienziati – procede per modelli prestabiliti, stereotipi, pregiudizi: questi costituiscono, dunque, una modalità intrinseca   a ogni processo cognitivo.

Tuttavia, il pregiudizio tende a diventare una modalità ricorrente e socialmente condivisa di percepire e rappresentare gli “altri”. I pregiudizi verso certe categorie di persone – gli stranieri, le donne, gli omosessuali, i Rom, gli ebrei…- non possono essere ricondotti solo a limiti individuali percettivi o cognitivi, poiché sono sempre connessi con un certo clima sociale, culturale e politico, con il ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa e con l’attività o inattività delle istituzioni pubbliche.

Nella formazione del pregiudizio, il linguaggio gioca un ruolo fondamentale: i termini hanno una valenza performativa e hanno il potere d’incidere sulla realtà e di trasformarla.

Facciamo un esempio, quello più comune. Nell’uso corrente, “clandestini” è una parola che può veicolare pregiudizio, essendo usata con un significato per lo più negativo, che allude ad uno status di totale illegalità e di estraneità a quello che veniva chiamato un tempo consesso civile. Come se l’essere clandestino fosse una condizione assoluta e definitiva tale per natura o per vocazione, invece che per necessità. in altre parole, come se fosse uno stato permanente e irreversibile e corrispondesse, di per sé, a pericolosità e propensione a delinquere. In realtà, arrivare “clandestinamente” in Italia è una scelta-necessità di sopravvivenza.

Dalla combinazione di processi di categorizzazione e generalizzazione nasce lo stereotipo.

Gli stereotipi non sono una creazione individuale ma vengono assimilati dall’ambiente circostante, accettati come validi perché parte della cultura del gruppo al quale si appartiene; usati per rafforzare la propria identità.

Una volta assunto, lo stereotipo viene protetto da una serie di processi cognitivi comportamentali e linguistici che ne impediscono la revisione e lo rendono impermeabile a qualunque processo di autocritica. Scatta un meccanismo per cui si selezionano le informazioni che confermano le aspettative stereotipate rispetto a quelle che le negano.

Ma come si spiega il fondamento così saldo e robusto del pregiudizio?

Sicuramente ciò che appare nuovo, diverso, non-familiare provoca inquietudine. In fasi di crisi, di smarrimento e di incertezza, lo straniero e il “diverso” a qualunque titolo possono divenire i capri espiatori cui imputare ogni genere di male sociale. Pregiudizio e xenofobia o mixofobia sono, spesso, un modo di nominare la crisi di identità dei gruppi sociali maggioritari: gli “altri” divengono il bersaglio atto a rafforzare il “noi”.

L’immagine dell’altro come diverso, individuato come minaccia e da respingere, è entrato a fare parte di un linguaggio condiviso, offre una base di intesa istintiva, un rifugio rassicurante, una spiegazione facile e immediata dei mali del mondo e delle difficoltà di ciascuno.

La massa informe degli “altri”, differenti da sé o dal proprio gruppo sociale, genera, infatti, spaesamento, allontanamento e paura. Per Zygmunt Bauman “l’afflusso dei migranti e specialmente quelli sfuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei paesi nei quali approdano un profondo disagio poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell’esistenza umana – la loro stessa debolezza umana – che i nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la maggior parte del tempo”.

Contrariamente a ciò che spesso si pensa, i pregiudizi non sono prerogativa esclusiva  di persone “comuni e ignoranti”. Riguardano strati più ampi di popolazione. E a suscitarli, quei pregiudizi, a legittimarli e a rafforzarli, concorrono le istituzioni, i partiti, i mezzi d’informazione, gli intellettuali. E così  essi divengono pericolosi nel momento in cui si traducono in discorso pubblico, prodotto e riprodotto dai mass media e dalle istituzioni.

Ma quali sono i fattori che favoriscono il pregiudizio? Alcuni studiosi si concentrano sugli aspetti della personalità, altri su variabili sociali  altri ancora enfatizzano  il ruolo svolto da educazione e comunicazione.

Secondo Adorno è più predisposta ad avere pregiudizi una personalità autoritaria, caratterizzata da  compatti sistemi di valori e da rigide credenze, con la tendenza a sottomettersi a chi comanda e a prendersela con chi è più debole.

Educazione: molti pregiudizi sono acquisiti in età prescolare.

Crisi economiche e disagio sociale: aumentano i pregiudizi parallelamente all’incremento delle tensioni tra i gruppi.

Mass Media: possono favorire il pregiudizio diffondendo informazioni errate e giudizi fuorvianti e influenzando la formazione della conoscenza.

Ideologie: molte teorie hanno in qualche modo influenzato lo sviluppo di pregiudizi.

Se questi sono i contorni concettuali del pregiudizio e i canali attraverso i quali si diffonde all’interno del tessuto sociale, quali sono i possibili rimedi? in che modo si può contrastare un atteggiamento che è insieme personale e collettivo? E come  liberarsi di un pensiero che è individuale e di natura psicologica e, insieme, pubblico e di natura politica?

Occorre partire dall’assunto che non possiamo liberarci dal pregiudizio. E tuttavia possiamo cercare di controllarlo e contenerlo.

Quindi più che di libertà – che è un risultato – parliamo di liberazione, che è un percorso.

Quello che noi abbiamo davanti agli occhi è il permanere di forme di pregiudizio e talvolta di ostilità forti e inamovibili, nonostante le tante esperienze che ci hanno fatto sperare in un loro superamento.

L’antisemitismo esiste, nonostante la shoah, il razzismo persiste anche dopo il superamento dell’apartheid in Sudafrica, il rifiuto dei migranti si riproduce nonostante le tragedie come il naufragio di Lampedusa (3 ottobre 2013).

Eppure quando all’immagine astratta e stereotipica dello straniero, del “clandestino”, si sostituisce quella reale di esseri umani che stanno affogando nel mare di Mediterraneo la prima risposta emotiva è quella del riconoscimento della comune appartenenza alla specie umana … Se su questa prima risposta emotiva si innestasse un risveglio della società favorito dalla partecipazione collettiva, sarebbe un primo passo verso la sconfitta dei fantasmi del razzismo.

Essere stranieri, spiega Richard Sennet – docente di sociologia alla London School of Economics e alla New York University – significa vivere all’estero in uno stato di disagio. C’è il migrante che per effetto dello choc culturale si aggrappa alla propria cultura, c’è quello che si iberna in totale indifferenza in una città con cui non riesce a entrare in contatto, c’è quello che ben presto comincia a sognare di tornare a casa. Il bisogno di radici diventa un sentimento che vincola e imprigiona. Questo quadro difficile nega, da una parte, a chi è diventato straniero la volontà e la capacità di trarre qualcosa di umano da questa sua “esperienza” e, dall’altra, conferisce una presunta “superiorità sociale” ai vantaggi del focolare.

Essere stranieri significa anche essere vittima di quello che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie chiama “il pericolo della storia unica”. Che significa? Attribuire all’Altro una sola storia singola semplificandoci così la vita. Ed è impossibile parlare della “storia unica” senza parlare di potere. Come la politica e l’economia, anche le storie (di un popolo, di una nazione, di una religione) sono definite dal potere: come sono raccontate, chi le racconta, tutto dipende dal potere. È il potere che decide, narrando la storia di un Altro, di spossessarlo facendo di quella storia la storia ultima e definitiva dell’Altro.

Lo stereotipo deruba le persone della loro personalità e dignità e rende difficile riconoscersi l’un l’altro come esseri umani. Enfatizza quanto siamo diversi e non vede, invece, quanto siamo simili.

In questa contraddizione, nell’Altro, specchio di sé stesso e contemporaneamente fonte di paura, risiede la chiave per scoprire quale possa essere l’antidoto al pregiudizio. Perché il rifiuto dell’altro è un modo per mascherare la propria debolezza e la propria incapacità a rischiare e a mettersi in gioco nell’incontro.

Proviamo a partire dalla più semplice delle indicazioni: la diversità non è mai assoluta, è sempre relativa. Siamo tutti diversi rispetto a qualche cosa. In ogni paese ormai la popolazione è una somma di diaspore, scrive Baumann. Ogni città di una certa dimensione è oggi un aggregato di differenze etniche e religiose, e di stili di vita. Questa fase storica  ci impone un continuo confronto con il diverso.

Ognuno di noi ha dei pregiudizi la questione non è di eliminarli di colpo, perché non è possibile, ma di combatterli giorno per giorno. Ed è un processo che passa sia attraverso una dimensione individuale che collettiva. E soprattutto non è un processo spontaneo, ma che deve essere orientato e agevolato da istituzioni capaci di parlare ai cittadini, mediare i conflitti, offrire soluzioni e ambiti di dibattito, elaborare leggi e regolamenti che siano garanti di tutti i diritti e dei diritti di tutti.