Autore:
Massimiliano Boni
Prepararsi a fronteggiare l’aumento di antisemitismo
Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), spiega a Riflessi come è cambiato l’antisemitismo dopo il 7 ottobre, e come oggi sia necessario ripensare le metodologie di studio e di insegnamento su shoah e memoria
Gadi, il Centro di documentazione ebraica contemporanea ha presentato nei giorni scorsi il suo bilancio sociale. Puoi farcene una sintesi?

È un bilancio molto articolato, che dà conto delle tante attività su cui ormai è impegnato il Cdec. Il Centro, infatti, ha registrato numeri importanti, sia in termini di offerta di servizi, che di utenti online e in presenza. Il nostro pubblico è ormai molto numeroso, c’è chi frequenta la biblioteca, chi l’archivio, chi partecipa ai corsi di formazione; chi accede ai nostri siti Internet, a fini di consultazione e documentazione. Inoltre ricordo l’Osservatorio antisemitismo, che riceve costantemente segnalazioni. Sono moltissimi ormai gli studenti e gli insegnanti che si rivolgono al Cdec, il che ci impone non solo di mantenere alta la qualità dei servizi offerti, ma anche un grande sforzo relativo al nostro finanziamento, in quanto solo in parte usufruiamo di fondi pubblici, dovendo per il resto rivolgerci a una costante attività di fund raising.
Il cambio di sede, da quella storica di via Eupili a quella nei pressi della stazione centrale, come ha contribuito alla vostra attività?
Il cambio di sede del 2022 ha cambiato totalmente non solo il nostro modo di lavorare, ma anche la visibilità e l’impatto della nostra attività. Oggi abbiamo spazi a disposizione che non avevamo mai potuto offrire in precedenza. All’interno della nuova sede è possibile organizzare seminari, workshop, e in generale sviluppare nuovi progetti. È proprio la progettazione didattica ad averne beneficiato: se prima, per la penuria di spazi, era il Centro che andava nelle scuole, oggi possiamo programmare e realizzare un’offerta ampia e strutturata. Inoltre godiamo del traino che ci deriva dalla maggiore visibilità pubblica, dovuta non solo al fatto di essere prossimi alla Stazione centrale, ma soprattutto di operare al fianco del Memoriale della Shoah, dunque esposti costantemente al flusso di utenti che vengono da noi per approfondire quello che hanno visto. Questo incide anche nel rapporto con i media, i quali ormai ci chiedono costantemente pareri anche sull’attualità. Tutto questo produce anche un cambio per quel che riguarda il modo di rivolgerci all’esterno.

In che modo?
Il Cdec nasce come Fondazione di ricerca archivistica e naturalmente ancora oggi il nostro obiettivo resta questo: attraverso la ricerca, fare cultura. Tuttavia, la nuova sede oggi ci stimola e ci impegna molto di più in un diverso approccio con gli utenti. Nella vecchia sede di via Eupili era diffusa la sensazione, anche tra noi addetti, che fossimo tutto sommato un centro culturale piuttosto chiuso, difficile da raggiungere, dunque concentrato più al proprio interno. Oggi è cambiata anche la mentalità di chi lavora nel centro: siamo tutti più predisposti all’accoglienza e all’integrazione con la società esterna.
Uno dei filoni di attività del centro, grazie all’Osservatorio sull’antisemitismo, è appunto il monitoraggio dei fenomeni di antisemitismo nel nostro paese. Le notizie di cronaca testimoniano un aumento dell’ostilità espressa non solo verso Israele ma anche verso gli ebrei.

L’antisemitismo vive da sempre nella pancia sociale del nostro paese, e in momenti di crisi emerge in modo forte. Per questo, in questi due anni di guerra a Gaza l’antisemitismo sta assumendo un rilievo nuovo, con una violenza che sta cambiando anche il nostro paese. Sta avvenendo cioè che, nella dialettica pubblica, si registri una saldatura indebita tra l’essere ebreo, l’essere sionista e l’essere israeliano. Nel linguaggio pubblico si tende sempre più a fare confusione, come se questi termini fossero dei sinonimi, creando una tempesta perfetta di ostilità e pregiudizio. Una trasformazione che emerge da un dato più rilevante degli altri: l’aumento di episodi di aggressione fisica. Ormai l’antisemitismo non si manifesta più solo con il discorso d’odio online e sui media, ma prende piede anche nella vita quotidiana come dimostra l’episodio all’autogrill di Lainate.
Dobbiamo preoccuparci per l’incolumità degli ebrei in Italia?
In generale, il numero delle segnalazioni è molto aumentato. Per fortuna queste forme di ostilità non hanno ancora superato una soglia di gravità, ma certamente non vanno sottovalutate, perché a separare le offese e il contatto fisico, come nella vicenda dell’autogrill, da azioni più violente e più diffuse ormai è rimasto un confine sempre più labile. Credo che questo clima sia l’effetto non solo di un aumento dell’antisemitismo, ma anche della violenza che si esprime a più livelli nella nostra società. Oggi viviamo in un mondo in cui cresce la violenza, di tutti i tipi. Per questo la preoccupazione è alta: se le istituzioni ebraiche godono tutte di una adeguata tutela da parte delle forze dell’ordine, a rimanere scoperti sono i singoli. Oggi, l’amara realtà è che girare in Italia con una kippà in testa è un rischio serio.
A diffondere il pregiudizio e l’antisemitismo, come dicevi, è innanzitutto il linguaggio dei social.
Da sempre sui social c’è una libertà intrinseca e assoluta che dipende dalla natura stessa di quei mezzi di comunicazione. Sui social chiunque si sente autorizzato a dire quel che vuole, senza alcuna censura e senza alcuna attenzione al linguaggio. Questo produce la tendenza all’uso di parole violente. È evidente che in tale contesto si fa un’enorme difficoltà a porre attenzione al corretto uso del linguaggio, soprattutto sul tema dell’antisemitismo. Questo sarà anche una sfida per il Cdec: quello di fornire strumenti, ad esempio attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale, che permettano di monitorare ancora più attentamente il fenomeno e prevenirlo.
Come dicevi, il linguaggio ostile agli ebrei ormai prende piede anche nel linguaggio pubblico, come nelle parole della politica e dei talk show.

In generale qui registriamo un’ignoranza profonda e una mancanza di attenzione. Prendendo a prestito le parole di Nanni Moretti, potremmo dire che “chi parla male pensa male”. A parte rarissimi casi di figure pubbliche che fanno attenzione alle parole e che possiedono uno spessore culturale importante, in generale va rimarcato che la classe politica italiana non sa parlare e soprattutto conosce poco o nulla della realtà mediorientale. Questa ignoranza si manifesta, nelle interviste e nei talk show, in banalizzazioni e spesso in pregiudizi. Guarda ad esempio l’utilizzo del termine genocidio fatto per descrivere il conflitto a Gaza. L’impressione è che questo linguaggio spesso venga utilizzato semplicemente per obiettivi di piccolo cabotaggio, ossia per lucrare vantaggi elettorali locali. In realtà questa volgarizzazione del linguaggio politico è una tragedia, perché seppure inconsapevolmente non fa che offrire argomenti all’antisemitismo. Oggi la gran parte dei politici e dei personaggi pubblici parla non di Palestina, ma di se stesso, ossia non gli interessa davvero la tutela e la salvaguardia dei bambini palestinesi o israeliani, ma solo di aumentare la propria popolarità. Prendi il caso, ad esempio, di Francesca Albanese, la quale vede crescere la propria popolarità senza avere proposto soluzioni concrete per la popolazione civile a Gaza, come prevederebbe il suo ruolo.
In una recente intervista a Riflessi, il presidente della comunità ebraica di Venezia, Dario Calimani, ha sostenuto che anche l’ebraismo italiano, nei suoi rappresentanti istituzionali, è mancato nella capacità di rappresentare le peculiarità dell’ebraismo italiano, finendo per creare una sovrapposizione con Israele.

Nel mio ultimo libro (Sugli ebrei, Bollati Boringhieri 2024) mi sono interessato tra l’altro proprio di questo. C’è da dire, tuttavia, che la potenza comunicativa di un libro, o di un comunicato dei rappresentanti dell’ebraismo italiano è ben poca cosa rispetto alla potenza dei social. Oggi assistiamo al dilagare del pregiudizio e dell’antisemitismo, in questa situazione risulta inefficace ogni controinformazione. In più, io individuo in Israele e nel sistema delle ambasciate israeliane un altro punto debole.
Quale?
Fin dall’inizio del conflitto Israele e le diverse ambasciate sparse nel mondo hanno mancato di curare una comunicazione efficace su quello che stava realmente avvenendo. In questa lacuna, è accaduto molte volte che le comunità ebraiche, in Italia, si siano sentite lasciate sole, e mandate allo sbaraglio, incalzate dalla società, dai media e dalla classe politica per fornire risposte e interpretazioni che non competevano loro. La scelta fatta a livello istituzionale a quel punto è stata di rispondere sempre, e l’identificazione tra ebraismo italiano e Israele si è dunque manifestata più volte. Credo che sia stato un errore, di cui subiremo conseguenze per molto tempo.
Di fronte a un quadro così negativo, quali strumenti dovremmo utilizzare per provare, se non a invertire la situazione perlomeno per cercare di contrastarle efficacemente?

Con una semplice parola ti direi: lavorare. Lavorare di più e meglio. Questo, dal mio punto di vista, si traduce in due linee guida: essere sinceri e aggiornarsi costantemente. Da un lato è necessaria la sincerità: se abbiamo lavorato per decenni sulla memoria, non solo descrivendo le vittime della Shoah, ma anche per favorire la maturazione della società civile sui valori della convivenza, oggi dobbiamo essere sinceri e condannare la distorsione della Shoah che proviene anche dall’interno del mondo ebraico. Mi riferisco ad esempio al governo israeliano, che dopo il 7 ottobre ha tentato di assimilare quanto compiuto da Hamas ad una nuova Shoah. Fu il direttore dello Yad Vashem, Dani Dayan, a precisare immediatamente che tale accostamento non era corretto. Anche noi, quindi, oggi dobbiamo avere la sincerità di denunciare figure come i ministri estremisti Smotrich e Ben Gvir quando in maniera del tutto indegna parlano della Germania accostandola a quella nazista. Essere sinceri significa chiarire che uno slogan come Am Israel Echad [il popolo d’Israele è uno, n.d.r.] è un artificio retorico, perché in realtà all’interno della diaspora e di Israele vivono posizioni e orientamenti anche molto diversi. Il secondo filone da seguire è quello dell’aggiornamento. Siamo di fronte a sfide importanti. Entro la fine dell’anno, ad esempio, sarà tradotto e pubblicato l’ultimo libro di Omer Bartov, uno dei più grandi studiosi della Shoah, il quale si pone la questione di come cambierà d’ora in avanti lo studio della Shoah e la trasmissione della memoria. È evidente che dopo il 7 ottobre, con la guerra in corso a Gaza e con il pregiudizio che sale a livelli di guardia, l’organizzazione del Giorno della memoria non sarà affatto semplice. Per chi, come noi, lavora alla memoria della Shoah, o in istituzioni che si dedicano ad essa, come l’IHRA, è necessaria una riflessione di tipo metodologico. La società oggi si attende approfondimenti di analisi che riguardano aspetti che non potevamo immaginare. Impellente quindi è il confronto tra noi; non dobbiamo evitare gli interrogativi del tempo presente.
Come si prepara il Cdec a questo compito?
Ad esempio, organizzeremo ad ottobre un seminario insieme al TOLI Institute di New York [The Olga Lengyel Institute for Holocaust Studies and Human Rights]. Nella prima lezione ci affideremo a uno psicologo dei gruppi per formare gli insegnanti e per ragionare insieme a loro sui tanti dubbi che ormai emergono su come insegnare la storia della Shoah, soprattutto in relazione al tempo presente. È questo un interrogativo significativo, che non dobbiamo evitare ma che al contrario dobbiamo affrontare, consapevoli della complessità del tema.
