28 Settembre 2015

Pecore in erba

«’Pecore in erba’, il mio film per seppellire l’antisemitismo a colpi di satira»

https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/09/24/news/pecore-in-erba-il-mio-film-per-seppellire-l-antesimitismo-a-colpi-di-satira-1.231238

Grossman parlando dell’umorismo come di una risorsa fondamentale in tempo di crisi, «una lente attraverso cui guardare il tragico e non sentirsi più soggiogati dalla catastrofe», ha precisato che solo gli ebrei hanno diritto di scherzare sulla Shoah. Per quanto, anche in questi casi, ridere di una questione tanto seria e dolorosa è impossibile.
Ha provato a parlare di antisemitismo in chiave satirica un giovane regista italiano ebreo, autore di un mockumentary, ovvero un finto documentario, sulla misteriosa scomparsa di un fantomatico ragazzo “geneticamente” antisemita (interpretato da Davide Giordano) che, per una serie di circostanze e coincidenze, si ritrova ad essere adorato dalle folle in una immaginaria società contemporanea in cui l’antisemitismo non solo è la normalità ma viene persino rivendicato e difeso.

Proprio uno strano oggetto cinematografico, questo Pecore in erba” di Alberto Caviglia. Che mette insieme – non senza qualche forzatura – vari piani narrativi, tra passato e presente, e diversi linguaggi, tra documentario (finto), fotografia, fiction e fiction nella fiction, interpretata tra gli altri da Margherita Buy, Vinicio Marchioni, Francesco Pannofino e Carolina Crescentini. Insieme a personaggi pubblici, da Fabio Fazio a Ferruccio De Bortoli, da Giancarlo De Cataldo a Enrico Mentana, ma anche Carlo Freccero, Linus, Elio, Corrado Augias, che appaiono intervistati ognuno nel proprio ruolo, seppur calati nella finzione architettata dall’operazione cinematografica del regista.
«Un gioco che rompe le regole» così ce lo ha spiegato Alberto Caviglia, insieme alla sua scelta stilistica «di fotografare le scene invece di girarle, ma sempre con il fine preciso di dare un aspetto di verosimiglianza  al documentario cercando di non creare incongruenze».

Presentato alla Mostra di Venezia nel concorso Orizzonti, dove ha ricevuto il premio collaterale Arca CinemaGiovani e il premio Civitas Vitae, in uscita nelle sale italiane il prossimo 1 ottobre, l’opera prima del regista romano, classe 1984, adotta un «approccio satirico che ribalta totalmente il tema dell’antisemitismo e lo racconta attraverso il paradosso. Questo film è forse il primo tentativo di sondare non tanto gli effetti ma le cause dell’antisemitismo, indagando e prendendo in giro le ipocrisie e le caratteristiche umane più profonde che fanno nascere questi fenomeni di discriminazione in modo spesso artificioso e ideologico. Il protagonista è un antisemita “puro”, non per ideologia ma per una questione genetica, un soggetto che di fatto non potrebbe neanche esistere. Leonardo non ha bisogno di motivazioni per odiare gli ebrei, è nato così e vuole solo riuscire a manifestarsi e ad esprimersi per essere accettato. In fondo è la storia di un “incompreso” ed è questo che fa ridere. Il fatto di raccontare un antisemita come un grande incompreso che lotta per una causa giusta, che ovviamente giusta non è, quale l’affermazione di un “valore” come l’antisemitismo che è invece una cosa spaventosa».

È fortissimo nello spettatore il disagio di fronte al consenso che viene immaginato e costruito intorno a questo personaggio mostruoso. La satira è uno strumento potente, ma può essere anche un’arma a doppio taglio. Non ha paura che il pubblico possa fraintendere?
«Certamente sì. Sapevo che era un rischio grande ma valeva la pena correrlo. Oggi l’antisemitismo e altri fenomeni analoghi sono arrivati ad una gravità tale che un film che provi a sensibilizzare sul tema io sono contento di averlo fatto, anche se può essere frainteso da una piccola percentuale di persone. E penso che quelle persone che potrebbero fraintenderlo partono con posizioni già tanto schierate che non avrebbero neanche interesse a vederlo. Il fatto di avere ricevuto a Venezia il premio Arca, assegnato da una delegazione di giovani, significa che i ragazzi hanno capito e apprezzato il film. Questo mi ha tolto un po’ di perplessità, mi rendo conto che la mia posizione può essere discutibile ma ho deciso di assumermene il rischio».

Nel film ci sono molti camei di personaggi celebri e crea un certo cortocircuito vederli nel loro ruolo istituzionale, professionale, artistico, elogiare il protagonista anche se per finta. Come ha gestito questo aspetto della finzione e come li ha convinti a mettere in gioco il loro ruolo pubblico?
«Ho raccontato la mia intenzione, lo scopo del progetto e ciò che avrebbero dovuto fare nel film. Alcuni hanno aderito subito all’idea di affrontare l’antisemitismo con la satira, altri hanno voluto saperne di più. Mi ha fatto un piacere enorme, non mi aspettavo tutte queste adesioni e tanta fiducia. Perché hanno accettato? Forse perché credevano in questo tipo di operazione e perché ritenevano sensato prendersi in giro nel proprio rispettivo ruolo al fine del senso del film».

Da giovane ebreo che percezione ha di cosa sia l’antisemitismo per la sua generazione e per quelle più giovani, viste anche le recenti dichiarazioni della nuova Miss Italia che avrebbe voluto vivere nel 1942 durante la seconda guerra mondiale?
«Sono cresciuto a Roma, dove c’è la più antica comunità ebraica d’Europa, e sono stati tanti gli input con cui mi sono dovuto confrontare. Di certo la mia generazione la storia l’ha studiata nei licei, però ho la sensazione che sfugga quanto l’antisemitismo sia un fenomeno ancora presente e attuale. Penso che ciò accada perché tante forme di antisemitismo in realtà non sono neanche del tutto coscienti in chi le manifesta e penso derivino da una serie di pregiudizi. Questo vale non solo per l’antisemitismo, in quanto l’Italia è un Paese poco aperto alle diversità e molto sospettoso nei confronti dello straniero. Questo clima di pregiudizio crea terreno fertile per fenomeni di questo tipo».

Nel mockumentary si legge anche una certa critica al mondo mediatico, in particolare a questa recente tendenza televisiva a gonfiare i casi di cronaca interferendo sul senso comune. Si riferisce anche a questo il titolo del film?
«La questione dei media è uno dei temi principali, altrettanto importante quanto l’antisemitismo, e la scelta del muckumentary ne è l’espressione più estrema. Per me è il “genere della disillusione” rispetto a come ci viene presentata mediaticamente la realtà. In un certo modo, prende in giro lo spettatore per dimostrare quanto potenzialmente relativo sia ciò che ci viene mostrato rispetto a ciò che invece accade. Il film prende di mira tutto il mondo della comunicazione, dalla radio alla televisione e al cinema, e lo porta ai suoi estremi come “glorificare” un antisemita e fare passare tutto ciò per la cosa più normale del mondo. In questo senso, le pecore del titolo non sono casuali».

La satira del film è costruita sul non-sense e sul paradosso, eppure la storia è calata in un contesto sociale purtroppo non del tutto inverosimile…
«Questa è la sostanza della satira e di questo progetto. Tutto il film si basa su un’ironia che tende ad amplificare fenomeni esistenti fino a renderli tanto surreali e anche divertenti. Il punto è che spesso anche le dinamiche più esagerate fanno comunque pensare alla nostra società, il che significa che sono esagerate fino ad un certo punto e che si basano su cose che esistono veramente. Se da una parte questo ci fa ridere, dall’altra ci fa sentire spaesati e crea quel disagio nello spettatore che sorride sì, ma al contempo riconosce l’ambiente in cui vive. Questo è il potere della satira, fare riflettere su quanto in realtà le cose non siano poi così diverse da un’estremizzazione che fa semplicemente ridere».

Lei ha citato modelli come “Il dittatore” con Sacha Baron Cohen e “Zelig” di Woody Allen, però nel primo caso si tratta di un personaggio contestato dalle masse e nel secondo di un uomo camaleonte studiato come fenomeno patologico. Il suo protagonista invece è trattato dalla gente come un “eroe”…
«La sfida più grande, sin dall’inizio, era riuscire a fare amare questo personaggio dallo spettatore. Mi sono detto che se avessi raggiunto questo risultato, allora il film poteva dirsi riuscito. Ma era la sfida più difficile e per riuscirci ho dovuto costruire il suo percorso come quello di un eroe, ovviamente in modo paradossale. Il fatto che alla fine lo spettatore riesca quasi ad identificarsi e a fare il tifo per lui crea quello straniamento che volevo e lo spaesamento provocato dal rendersi conto di volere bene ad un antisemita, che non è altro che un mostro».

Difficile volergli bene, infatti. Ha scelto un tema incandescente per il suo esordio cinematografico. Qual è il suo rapporto personale con l’ebraismo?
«Sono ebreo, ma forse vivo un po’ lontano dalla comunità vera e propria, nel senso che ho fatto solo le elementari alla scuola ebraica e poi ho frequentato le scuole pubbliche, dove mi sono sempre confrontato con tutto il resto. Sento fortissimo il legame con la comunità e con le mie origini, ma per quanto io abbia da sempre voluto fare il regista mai avrei pensato che il mio primo film avrebbe avuto come tema l’antisemitismo. È nato tutto dall’idea di un istante, da un’illuminazione che oggi, a film finito, mi ha fatto capire quanto sia importante per me questo tema e quanto mi senta coinvolto da tutto questo».

Di Ornella Sgroi, L’Espresso