30 Aprile 2018

“Visit Palestine”

Fonte:

Informazione Corretta

Autore:

Marco Paganoni

Commento di Marco Paganoni: Visitate la Palestina

Esiste un poster degli anni ’30 che affascina i palestinesi tanto da essere diventato un’icona del loro irredentismo. Contiene un’accattivante immagine stilizzata della città vecchia di Gerusalemme accompagnata dalla scritta: Visit Palestine, “visita la Palestina”. Ciò che sfugge ai tantissimi palestinesi e loro sostenitori che lo esibiscono orgogliosi nelle case, nei negozi, negli uffici o sui social network, è che si tratta un poster squisitamente sionista.

Capita infatti che nel 1936 l’ebraica Tourist Development Association of Palestine commissionò all’artista grafico Franz Krausz una serie di poster per incoraggiare sia il turismo che l’immigrazione degli ebrei in Palestina (o Terra d’Israele), allora sotto Mandato Britannico. L’ebreo e sionista austriaco Krausz, fuggito da Berlino dopo l’avvento di Hitler, era approdato nella Palestina Mandataria dove aveva contribuito a fondare la Society of Graphic Designers e si era fatto un nome nel campo della pubblicità. Sua, ad esempio, la figura della mucca diventata tanto popolare sulle tavolette di cioccolato Elite. Krausz ebbe occasione di disegnare parecchi manifesti destinati a magnificare i successi dell’impresa sionista – dai pionieri dell’agricoltura con le loro arance Giaffa, alla compagnia di autotrasporti Egged, alla fiera commerciale di Tel Aviv – in un paese, all’epoca non ancora indipendente, che nei suoi poster veniva variamente indicato come Eretz Israel (Terra d’Israele) oppure “la Terra dell’olio d’oliva e del miele” oppure anche “la bella Palestina”.

Con il motto Visit Palestine, oltre a Gerusalemme Krausz disegnò anche una veduta di Tiberiade con il Mare di Galilea e sullo sfondo il Monte Hermon innevato. Negli stessi anni disegnava anche dei grattacieli abbastanza fantasiosi con la scritta “Tel Aviv, la meravigliosa città della Palestina”, e dei succosi agrumi gialli e rossi con la scritta: “Maturati al sole della Palestina”. A quell’epoca infatti Palestina – il nome ufficiale del Mandato Britannico – era il termine comunemente usato dagli ebrei, e aborrito dagli arabi: Anglo-palestinese era il nome della banca che poi sarebbe diventata Bank Leumi; palestinese era il padiglione degli ebrei d’Israele alla Fiera Internazionale di New York del 1939; palestinesi sarebbero stati i volontari ebrei venuti a combattere in Italia contro i nazi-fascisti nel ’44-’45. Gli ebrei erano palestinesi a pieno titolo, certo non meno degli arabi: tant’è che nel 1947 l’Onu – come abbiamo già ricordato su queste colonne – propose di spartire il paese in due stati, uno ciascuno per i “due popoli palestinesi” (“two Palestinian peoples”). Nei decenni successivi, tuttavia, venne gradualmente imposto l’uso del termine “palestinesi” per indicare esclusivamente gli arabi di Palestina, trasformando ipso facto in estranei tutti gli altri abitanti della Palestina, e segnatamente gli ebrei: se i “palestinesi” sono per definizione arabi e musulmani (questo afferma per esempio la Basic Law palestinese approvata a Ramallah il 29 maggio 2002), allora gli ebrei non possono che essere degli illegittimi intrusi e il loro Stato, per dirla con Abu Mazen, “un progetto coloniale senza radici”.

E’ un falso storico, ma è un falso terribilmente efficace. Attenzione: qui non si tratta della questione un po’ capziosa di quale sia il nazionalismo più antico o quello meglio fondato storicamente. Non è l’età che legittima i sentimenti di identità nazionale, e d’altra parte non esiste nazionalismo che non si nutra anche di miti più o meno immaginari. La questione, qui, è quella di un nazionalismo arabo palestinese che si è forgiato e affermato sulla negazione del nazionalismo ebraico palestinese. Una negazione spinta a tal punto da non essere più nemmeno sfiorati dal dubbio: “I palestinesi, e tanti altri – dice Dan Walsh, fondatore del Palestine Poster Project Archives – danno per scontato che questo poster non avrebbe potuto essere realizzato da un sionista perché riporta sia la parola Palestina, sia l’immagine della Cupola della Roccia. Ma entrambe queste supposizioni sono sbagliate”. Non solo quel poster fu concepito da un ebreo sionista, ma – aggiungiamo noi – non avrebbe potuto essere diversamente. Torna alla mente il povero Abu Mazen che nel giugno 2016, dovendo omaggiare re Salman dell’Arabia Saudita, non trovò di meglio che regalargli una copia incorniciata del Palestine Post del 13 agosto 1935 con la notizia della visita dell’emiro Saud nella Palestina Mandataria. Pazienza se il Palestine Post, oggi Jerusalem Post, era un giornale ebraico e sionista. Evidentemente tante imprese che Abu Mazen oggi vanta come (arabe) palestinesi, in realtà erano create dagli ebrei (palestinesi). Ma siccome gli ebrei (palestinesi) non devono esistere (perché altrimenti potrebbero accampare qualche diritto all’autodeterminazione in terra di Palestina), dunque si sconfessa la realtà e all’occorrenza la si manipola.

Così, del famoso poster di Krausz Visit Palestine (riscoperto e ristampato nel 1995 dal grafico e archivista israeliano David Tartakover, e da allora inopinatamente tramutato in labaro dell’irredentismo arabo palestinese), nel 2012 compare una versione contraffatta con lo slogan scritto in arabo. Ancora più spudorata, in questo senso, la vicenda dei francobolli emessi dagli inglesi nel periodo del Mandato, che recavano la scritta Palestina in inglese, arabo ed ebraico: quest’ultima seguita dalle iniziali alef iud per Eretz Israel (Terra d’Israele). Ma dalla riproduzione di quei francobolli nei testi di storia delle scuole dell’Autorità Palestinese, la dicitura in ebraico è misteriosamente scomparsa. C’è un che di realmente inquietante in questa indomita capacità di mentire a se stessi, e nella determinazione con cui, pur di delegittimare Israele, si continua a negare la realtà e la storia degli ebrei in Palestina: finanche appropriandosi di un loro poster, in attesa di riuscire ad appropriarsi del loro Stato.