2 Gennaio 2022

Tommaso Levi, avvocato del foro di Torino, auspica l’introduzione di una giurisprudenza più efficace per contrastare razzismo e antisemitismo

Lotta al razzismo e all’antisemitismo, essenziale una normativa più efficace

È di alcuni giorni fa la notizia giornalistica dell’ennesimo scempio della Memoria della Shoah.

Ignoti hanno appeso all’albero di Natale del Comune di Montemurlo (Prato) una decina di palline con effigi naziste e l’immagine di Adolf Hitler con un cuore rosso.

Ha detto molto bene il sindaco di quella cittadina Simone Calamai: “Episodio gravissimo che offende i valori su cui è nata la nostra Repubblica e la nostra democrazia” e, aggiungerei io, la stessa Unione Europea.

Le indagini sono in corso e mi auguro che i responsabili vengano individuati e puniti, anche se, ed è questo lo spunto di riflessione che vorrei condividere con voi, arrivare ad una punizione per tali tipologie di condotte, ahimè sempre più diffuse, è estremamente difficile nel nostro paese.

Questa doverosa battaglia, non solo di civiltà ma anche di difesa della democrazia, sconta, infatti, una normativa interna, complessa, contorta e di difficile applicazione. Tali condotte, oggi, sono essenzialmente punite dall’art. 604 bis del codice penale intitolato “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”.

In estrema sintesi e alla luce dei non numerosi pronunciamenti giurisprudenziali, possiamo dire che la norma incrimina le manifestazioni di talune tipologie di pensiero discriminatorio, lesivo della uguaglianza e della dignità delle vittime. La giurisprudenza è stata pressoché costante nell’individuare la propaganda penalmente illecita, non nella semplice espressione di idee, ma nell’attività finalizzata a influire concretamente sulla psicologia altrui e, di conseguenza, sull’altrui comportamento attraverso la raccolta di consensi. Una condotta, quindi diretta a influenzare l’opinione pubblica ovvero a modificare le idee e i comportamenti dei destinatari.

Allo stesso modo, l’istigazione da punire è considerata quella diretta a convincere terzi a porre in essere talune condotte delittuose animate dalla finalità discriminatoria. Anche in questo caso la giurisprudenza ha delineato i requisiti necessari affinché il comportamento dell’istigatore possa assumere rilevanza penale. Esso, infatti, deve essere tale da palesare una “indefettibile idoneità dell’azione a suscitare consensi e a provocare attualmente e concretamente il pericolo di adesione al programma illecito”.

È necessario, pertanto, che la manifestazione di pensiero “razzista” (sia esso propaganda o istigazione) determini il concreto rischio di adesione, da parte dei destinatari di tali propalazioni, alle orribili idee discriminatorie. Nell’evidenziare la difficoltà del perseguimento penale di tali condotte non bisogna dimenticare che anche il dubbio sulla sussistenza di una di tali circostanze non può che portare alla assoluzione dell’autore della condotta.

La complessità di tale fattispecie ha portato spesso i nostri giudici a pronunciare sentenze di assoluzione che fanno a pugni con la nostra coscienza e la nostra sensibilità al tema.

Penso ad esempio alla assoluzione dell’editore che aveva pubblicato i tristemente famosi “protocolli dei Savi Anziani di Sion” con una prefazione, una postfazione ed una quarta copertina a cura dell’editore medesimo adesive delle teorie antisemite proprie del libro. Per la Corte di Cassazione l’editore era stato “molto attento (e abilmente spregiudicato) a dirigere le proprie critiche non nei confronti di tutti gli ebrei, bensì solo nei confronti di coloro che egli definisce sionisti”. E questo secondo i magistrati anche quando l’editore faceva propria la frase tratta dal Mein Kampf di Adolf Hitler “Non importa sapere da qual cranio siano uscite tali rivelazioni, è essenziale però il fatto che esse scoprano con orrenda sicurezza la natura e l’attività dei giudei”. Secondo i giudici, pertanto, le affermazioni dell’editore rientravano nel legittimo esercizio di un diritto di critica politica e non costituivano affermazioni istigatrici dell’odio razziale.

Penso agli autori di un orrendo manifesto circolato per la città di Milano a seguito di un grave crimine commesso da un cittadino straniero, su cui era riportata la frase “Clandestino uccide tre italiani a picconate – pena di morte subito!!!” e una immagine raffigurante anche una ghigliottina con lama grondante sangue e, accanto alla stessa l’immagine, la testa di un uomo di colore decapitato.

Orbene per la Cassazione non è stato sufficiente l’esposizione di tale manifesto per le vie della città per integrare il reato di propaganda o istigazione all’odio razziale. La discriminazione per motivi razziali, secondo gli ermellini, deve fondarsi proprio sulla qualità personale del soggetto e non sui suoi comportamenti.

Come dire, a dimostrazione della pericolosità di tali conclusioni, che se si dice che l’ebreo ha il naso adunco allora si commette un reato ma se si scrive che l’ebreo è un usuraio allora l’affermazione è lecita perchè non riguarda una caratteristica razziale ma un comportamento della persona.

Non sono mancate, ovviamente, sentenze di condanna degli autori di analoghe ignobili gesta. Ho assistito recentemente la Comunità ebraica di Torino quale parte civile in un procedimento avanti il Tribunale di Aosta. Un abitante del Comune di Saint Vincent (Aosta) aveva deciso di ornare i cancelli di ingresso della sua bella villa con delle aquile molto simili a quelle del Terzo Reich e con dei triangoli rovesciati che ricordavano quelli apposti sulle divise dei prigionieri dei campi di concentramento. Nel corso delle indagini scaturite dalla denuncia presentata dalla Comunità è emersa la passione di questa persona per la letteratura sul nazismo e la sua abitudine di inviare video di storici negazionisti agli amici. È stata addirittura rinvenuto un bassorilievo nell’androne di casa a forma di svastica. Durante il processo, ed è forse la circostanza che mi ha colpito di più, quasi ferito, nessuno dei conoscenti dell’imputato, sentiti come testimoni, ha manifestato un qualche stupore per i simboli presenti all’interno della casa. Il primo grado del processo (l’appello è in corso) si è concluso con la condanna dell’imputato per il reato di propaganda di idee fondate sulla discriminazione razziale nonché a risarcire il danno cagionato alla Comunità ebraica con il pagamento di una significativa somma di denaro che la Comunità destinerà alla organizzazione di manifestazioni contro il razzismo e l’antisemitismo.

In ogni caso gli esempi citati impongono un cambio di passo nella lotta al razzismo. La magistratura deve mostrare maggiore sensibilità al tema e interpretare la norma in esame con meno formalismi e più attenzione al contesto allarmante.

Il legislatore deve ripensare alle norme che oggi puniscono le condotte discriminatorie e che poc’anzi abbiamo esaminato e che appaiono poco efficaci.

Le ragioni per cui il nostro Parlamento ha partorito una norma cosi complessa, a differenza, bisogna subito dirlo di altri Paesi europei, sono di due ordini.

Uno storico e politico a cui posso solo accennare ma che meriterebbe un serio approfondimento. Questo è un paese che, a differenza della Germania, non ha mai fatto seriamente i conti con il proprio passato e che, anche per tali ragioni, ha, oggi, una classe politica che ammicca quotidianamente a queste frange estremiste e che utilizza “l’odio” come strumento di propaganda politica.

Significativa dell’atteggiamento della classe politica italiana è la riforma recente relativa alla punizione del c.d. reato di negazionismo. L’Unione Europea, già nel 2008, aveva chiesto agli Stati membri di introdurre tale reato. Quello italiano lo ha fatto solo nel 2016 (ci sono voluti ben otto anni) con una scelta normativa alquanto discutibile. È stata introdotta nel nostro ordinamento non una fattispecie autonoma di reato, ma una aggravante del già esaminato reato di istigazione e propaganda all’odio razziale. La complessità della norma di base rende sostanzialmente impossibile la punizione delle condotte negazioniste della Shoah.

La seconda ragione è di ordine giuridico. Illustri studiosi di primissimo ordine e sicuramente non dalle ideologie razziste, sono contrari alla punizione dei c.d. reati di opinione, tra cui fanno rientrare anche il reato di istigazione all’odio razziale.

Dicono, con argomentazioni raffinatissime, che lo Stato democratico non può criminalizzare chi esprime una propria idea, indipendentemente da quale essa sia e che la nostra Costituzione prevede e tutela la libera manifestazione del pensiero. Non condivido tali prestigiose opinioni. Le ritengo anacronistiche e non allineate al mondo di oggi in cui sono saltate le regole della comunicazione, della stampa e della informazione.

Oggi condiziona di più l’opinione pubblica un post di un influencer che un dotto e argomentato articolo di un affermato giornalista o studioso.

Molti accadimenti recenti dimostrano le fragilità delle attuali democrazie: l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio dello scorso anno e i provvedimenti normativi pacificamente discriminatori di Polonia ed Ungheria, membri della civilissima Unione Europea, costituiscono dei significativi campanelli di allarme.

Ritengo necessario che i Paesi democratici inizino a difendere i principi base della democrazia tra cui, ovviamente, quello della uguaglianza, e che si intensifichino le battaglie contro il razzismo e l’antisemitismo anche con le sanzioni penali.

Chi promuove idee antidemocratiche, come il razzismo e l’antisemitismo, o espone pubblicamente simboli che esaltano regimi antidemocratici, come quello nazista tedesco, non può andare esente da responsabilità penale solo perché i regimi democratici tutelano la libertà di pensiero.

Mi pare un eccesso di garantismo che conduce a conclusioni paradossali. La democrazia che legittima e protegge i pensieri dei suoi nemici.

Ritengo necessario, pertanto, una modifica della norma che oggi punisce le condotte di discriminazione razziale e la repressione dei c.d hate speech (razzismo e hate speech sono due facce dello stesso fenomeno sociale).

Mi piace molto la soluzione adottata dalla Germania. L’articolo 130, comma 1, del codice penale tedesco (Strafgesetzbuch – StGB) dispone che chi, in maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro elementi della popolazione o lede la dignità di altre persone attraverso insulti o offese è punito con una pena detentiva da tre mesi a cinque anni.

Due soli sono i presupposti per l’applicabilità di tale norma: a) la condotta deve aver messo in pericolo il c.d. ordine pubblico; b) la condotta deve aver incitato all’odio o alla violenza contro una parte della popolazione o aver leso la dignità delle persone.

La persona nella sua individualità e dignità è al centro della tutela. Non è più un problema di razze, sesso, nazioni ma è l’individuo in sé con le sue caratteristiche ad essere tutelato da condotte discriminatorie.

Sempre la Germania punisce i provider e i social che entro un certo lasso di tempo non cancellano i messaggi di odio.

Punire i responsabili di tali comportamenti senza se e senza ma e, al contempo, spegnere la luce dei riflettori sulle loro ignobili opinioni mi paiono i due obiettivi che bisogna determinarsi a raggiungere con una normativa più efficace.

Il mondo ebraico in tutte le sue articolazioni, testimone dell’orrore della discriminazione razziale, deve farsi carico di questa battaglia di civiltà e di democrazia.