8 Settembre 2016

Scomparsi in questi giorni Settimio Piattelli e Enrica Zarfati, testimoni della Shoah

Fonte:

Il Fatto Quotidiano

Autore:

Marcello Pezzetti

Settimio ed Enrica, vite distrutte di ebrei italiani traditi dal loro Paese

Intervistare Settimio Piattelli e Enrica Zarfati, morti pochi giorni fa, è stata un’impresa. Erano gli inizi degli anni 90; dal Centro di Documentazione Ebraica di Milano l’avevamo contattato più volte, ma Settimio non arrivava mai a decidere di rilasciare la sua preziosa testimonianza ed Enrica, dopo aver accettato di parlare, aveva subito un infortunio e quando arrivai a casa sua la trovai su un’autoambulanza, appena dimessa dall’ospedale, incapace di reggersi, ma intimandomi comunque di intervistarla, cosa non semplice. “Parlare” della propria vita, della persecuzione, della deportazione e di Auschwitz significava, per loro che non l’avevano mai fatto, la quasi certezza di rivivere quel male oscuro, di rientrare in quell’abisso, una violenza inaudita, certamente un pericolo. Era qualcosa che non si era mai “trasmesso” nemmeno in famiglia. “Non l’ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a mia figlia – mi confessò Settimio.

SETTIMIO, nato a Roma, in centro storico, agli inizi del 1921, figlio di Graziano Piattelli e di Emma Spagnoletto, aveva un fratello e una sorella, Lelio e Letizia, di due e quattro anni più giovani di lui. Enrica, figlia di Alberto e di Italia Sed Piazza, era nata nel 1921 a Roma e abitava alla Garbatella. Era la prima di tre fratelli e quattro sorelle. La sua famiglia era poverissima: il papà, commesso in un negozio di tessuti, era stato licenziato dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche e lei e la sorella dovettero lavorare a macchina da una signora che abitava vicino. “Abbiamo fatto i pantaloni a tre soldi al paio… proprio ‘na cretinata…”, ma a undici anni doveva “racimolare qualche soldo”. Settimio fece il lucidatore di mobili e se la cavò meglio. Ma poi, quasi all’improvviso, il 16 ottobre. I nazisti entrarono in casa di Settimio e si presero papà, mamma e sorellina. Lui e il fratello riuscirono a nascondersi. Sfuggiti alla razzia nazista, alcuni mesi dopo non poterono evitare l’arresto da parte di fascisti, italiani come loro, magari loro vicini di casa. Vennero portati a via Tasso, interrogati e picchiati, poi a Regina Coeli, al Terzo braccio, quindi nel campo di transito di Fossoli, vicino a Modena. Il 16 ottobre Enrica e i suoi dovettero abbandonare l’abitazione per evitare la cattura; con altri ebrei trovarono rifugio in una grotta in mezzo alla campagna. Solo la mattina dopo qualcuno li avvisò che i tedeschi non c’erano più. Per alcuni giorni vennero aiutati dai vicini, poi, però, furono costretti a trovare un nascondiglio per alcuni mesi. “Il rifugio era praticamente la palazzina presso a noi, dove c’era la fontana, co ‘na cameretta per questi che stendono i panni. Ah, i topi lunghi così”. Ma il peggio doveva ancora venire. “Poi, la bontà de certi fascistacci, ce fecero la spia che noi stavamo là”; lei e una signora che si nascondeva con loro vennero trovate da un uomo della pubblica sicurezza. Finirono a Regina Coeli e anche loro a Fossoli.

MAL VOLENTIERI, tutti e due affrontarono i l capitolo di Auschwitz-Birkenau. Entrare in questo luogo significò per Settimio, arrivato col fratello, scoprire la tragica fine del resto della famiglia: “Pensavamo de trovarli da vivi, invece amo trovato che già se li erano magnati… già erano morti”. Un incubo solo ricordarlo”. Enrica, invece, fu separata dalla signora che era con lei e si ritrovò sola, terrorizzata per il fatto di non comprendere una sola parola in tedesco, a partire dal numero di matricola: “Poi questo era il bello, che lo dovevamo capire in tedesco. E chi ‘o capiva? Io nun ero mai uscita de casa, dovevo capì il numero in tedesco?” I mesi che seguirono furono allucinanti, segnati dalla fame – “La fame era tanta, tanta. Nun c’avevo più neanche la memoria de recordare i famigliari, niente” (Enrica) -, dal lavoro schiavo, dalle botte, dal terrore di finire al crematorio, soprattutto con le selezioni interne – “Nun glie interessava niente, nun contavamo niente. Per loro dovevamo morire e basta, soffrire e morire…. basta che eri ebreo. Basta! Finito!” (Settimio)” -. Tutti e due rimasero in vita soprattutto perché vennero in seguito trasferiti in altri campi, Enrica a Ravensbrück e poi nel sottocampo di Mallchow, Settimio a Stutthof e poi a Vaihingen, un sottocampo di Natzweiler-Struthof, poco distante da Strasburgo, dove venne separato dal fratello Lelio, che non avrebbe mai più rivisto.

TUTTI E DUE, dopo la liberazione, ritornarono alla vita, con molte difficoltà, Settimio formando una famiglia, Enrica nell’affetto dei suoi cari. Vale la pena sentire le loro considerazioni di fine intervista. Enrica mi salutò dicendomi che “…se so’ salva, nun lo so manco io” e ammonendo: “Lo dovrebbero sape’ tutti quanto abbiamo sofferto, invece tanti se ne pulcitano”. Settimio ha voluto ribadire due pensieri che lo assillavano: il perché di tanto antisemitismo assassino (“Eravamo gente lavoratori, che n’avemo dato fastidio mai a nessuno”) e il ricordo della sorellina Letizia, portata via il 16 ottobre:”Mia sorella Letizia era bellissima, oltre che buona. ‘Na brava bambina, studiosa… li mortacci, m’hanno distrutto”.