15 Febbraio 2019

Roberto Finzi, Breve storia della questione antisemita, Bompiani, 2019

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Paolo Salom

Le radici dell’odio: genesi e storia dell’antisemitismo

Citando Jean-Paul Sartre, lo storico Roberto Finzi, nel suo Breve storia della questione antisemita (Bompiani, pagine 240, €12), scrive che «l’’esperienza non fa sorgere la nozione d’ebreo, al contrario è questa che chiarisce l’esperienza; se l’ebreo non esistesse, l’antisemita lo inventerebbe». Parole che da sole inquadrano un fenomeno, l’antisemitismo appunto, tutt’altro che teorico ma, al contrario, parte concreta della cultura occidentale — e arabo-islamica — da circa due millenni. Gli effetti di questo atteggiamento pregiudiziale sono in parte noti: la Shoah, massacro industriale di cinque milioni di ebrei capace di cancellarne la presenza in gran parte dell’Europa centro-orientale; in parte meno: le stragi periodiche in Europa prima, durante e dopo il Medioevo alimentate da accuse di omicidio rituale o semplicemente portate a compimento (per esempio dall’esercito di crociati in marcia verso la Terrasanta) per «ripulire» la cristianità dagli «infedeli». Nel saggio, rielaborato e aggiornato dall’autore rispetto a un suo precedente lavoro uscito nel 1997, Finzi prova a rispondere a una domanda che aleggia con pervicacia in Occidente: perché esiste l’antisemitismo? E, in subordine, al quesito che persino alcuni ebrei hanno fatto proprio: dipende forse, almeno in parte, da qualcosa che gli ebrei stessi hanno fatto? La citazione di Sartre aiuta a dare sollievo per quanto riguarda la seconda questione: l’odio contro gli israeliti è sganciato dai loro atti e, spesso, persiste anche in loro assenza. Per quanto riguarda la prima, fondamentale domanda, la risposta è un excursus attraverso le tappe fondamentali della problematica convivenza tra ebrei e cristiani in Occidente, con esempi pertinenti all’universo arabo-islamico. Leggendo le pagine di questo interessante studio, colmo di citazioni e riferimenti storico-letterari, si entra nella genesi del fenomeno chiave (almeno per il Ventesimo secolo) passando dal suo precursore, l’antigiudaismo di matrice cristiana (non c’è spazio qui per affrontare le profonde implicazioni teologiche), con l’accusa di «deicidio» che ha attraversato i secoli attribuendo agli ebrei l’aura di «intrinseca crudeltà» trasmessa di generazione in generazione: un popolo capace di mettere in croce Gesù Cristo (peraltro incappato, da ebreo, nella giustizia romana) non meritava che disprezzo e ostilità. Da qui la separazione fisica che nel tempo portò alla costituzione dei ghetti; le leggi che impedivano agli ebrei la gran parte delle professioni (tranne quella di prestatori di denaro) e il diritto di possedere la terra; le espulsioni in massa da città e territori dove avevano abitato per secoli (per esempio dall’Inghilterra di Edoardo I nel 1275; dalla Spagna e tutti i territori da essa controllati a partire dal 1492). L’antigiudaismo sarebbe diventato antisemitismo solo nel Diciannovesimo secolo. Il termine, coniato a Berlino nel 1879 dal «nazionalista» Wilhelm Marr, era la trasformazione lessicale indispensabile perla prosecuzione dell’odio contro gli ebrei, emancipati a partire dalla Rivoluzione francese in quasi tutta l’Europa (Russia zarista e Stato della Chiesa esclusi). Serviva perché gli ebrei che uscivano dai ghetti e provavano ad assimilarsi nelle società dell’epoca dovevano in qualche modo rientrare nello stigma, non più per il loro credo, ma perla loro intima essenza: la razza «semita». L’affare Dreyfuss, i pogrom, l’Olocausto non sarebbero stati altro che l’inevitabile conseguenza di una convivenza impossibile con l’«altro», visto necessariamente come nemico e traditore. Il risorgere dell’antisemitismo (o della sua nuova forma, l’antisionismo) nel nostro tempo dimostra che il virus è tutt’altro che debellato.