4 Dicembre 2019

Rav Roberto Della Rocca risponde all’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia sull’antisemitismo contemporaneo

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Roberto Della Rocca

L’Europa e i cortocircuiti del nuovo antisemitismo

Caro direttore, in un recente articolo, Ernesto Galli della Loggia ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo. Ne scaturisce che per liberarsi da quel senso di colpa, una certa parte dell’Europa ha bisogno adesso di liberarsi dei suoi ebrei. Il prezzo più dannoso derivante dalla Shoah è costituito dalla centralità che essa finisce per acquisire nella stessa identità ebraica che per molti ebrei rischia di essere un modo per non assumersi la responsabilità di costruirsi un’identità proattiva e consapevole. Se il compito della società civile è quello di riconoscere le proprie responsabilità, quello del popolo ebraico consiste nel saper uscire dalla contingenza del dolore canalizzando il proprio trauma nella dimensione della memoria storica. Secondo della Loggia questa centralità della Shoah offrirebbe altresì una sorta di sponda alle tendenze devianti che albergano in Occidente. Tendenze che attribuiscono all’ebraismo, secondo l’autore, una «straordinaria valenza simbolica agli occhi degli europei». In Europa l’ebraismo è sempre stato relegato a un ruolo subalterno rispetto alla cultura dominante cristiana in base a una logica di banale, quanto antropologicamente pericolosa, gerarchia identitaria: la cultura di minoranza deve assoggettarsi a quella di maggioranza. E l’equazione è bella e fatta: l’ebraismo va identificato «solo» con un Vecchio Testamento (o con un Testamento ormai vecchio). Ancora oggi e in molti ambienti, l’identità Torah uguale Antico Testamento e Antico Testamento uguale Legge, porta a vedere nel Vecchio Testamento — cioè nella nostra Torah — solo legalismo e vendicatività. Nulla a che fare con una nuova Alleanza dispensatrice di amore, perdono e universalismo di cui la Tradizione ebraica sarebbe priva. Tesi diffuse, e spesso rispolverate anche da maître à penser del nostro côté intellettuale in molti dei luoghi comuni che nutrono teorie antisemite. Basti vedere i libri scolastici su cui si formano le nostre nuove generazioni, testi nei quali gli ebrei compaiono con le civiltà antiche per poi ricomparire soltanto nella Shoah come vittime disincarnate. O reliquie archeologiche o vittime da santificare. Una sorta di celebrazione mistica del popolo ebraico come vittima della Shoah procede spesso parallelamente al misconoscimento dell’ebreo come attore e protagonista nella storia contemporanea. Un’immagine semplice e alla portata di tutti, destinata ad altri scopi, strumentalizzata per sostenere quelle tesi negazioniste e antisemite, e, in alcuni casi, contrarie alla legittimità dello Stato di Israele. Congetture e sillogismi che in alcuni casi si moltiplicano al fine di alleggerire i sensi di colpa per un passato con cui si continua a non voler fare i conti. Ma la Shoah, pur avendo decimato un terzo del popolo ebraico ed eliminato la parte più propulsiva dell’ebraismo in Europa, non costituisce il «Golgota» della storia e della cultura ebraica. Per gli ebrei resta infatti una «Shoah», letteralmente «una catastrofe», e non un «Olocausto» (un sacrificio cruento e che si consuma totalmente) concetto che non ha diritto di cittadinanza nella nostra cultura. La Shoah non è neppure il martirio, semmai l’apice di un antigiudaismo con radici cristiane ben piantate che ha visto spesso assassini e delatori di ebrei che erano appena usciti dalla Chiesa per la Messa mattutina o carnefici che nella stessa Auschwitz piantavano l’albero di Natale. Nonostante la Shoah, l’ebraismo ha tuttavia continuato a esprimere una resilienza culturale e identitaria che ha visto gli ebrei continuare a esercitare quel ruolo di minoranza che vive e che lotta affinché ci siano sempre culture di minoranza. Gli ebrei oggi si esimerebbero ben volentieri dal ruolo scomodo di «sentinelle» della società civile se il tessuto sociale non fosse silente qual è e se non si assistesse a una demolizione progressiva di tutti quei tabù e di quegli argini che hanno retto, pur con sfumature ambigue, per tanti anni. Oggi, lo Stato di Israele costituisce in effetti il punto nodale dell’insofferenza degli antisemiti, come segnala Galli della Loggia, il quale scrive che Israele mortificherebbe l’Europa «contrapponendo alla nostra pavida debolezza una rude fiducia e familiarità con la forza per noi inconcepibili», mettendo in luce un concetto che, nell’ottica di uno Stato minuscolo accerchiato da nemici numerosi e potenti, fa la differenza fra vita e morte. Ma la forza di Israele continua a essere più interiore che militare, sulla base di quei principi etici e democratici, del pluralismo, del garantismo giuridico che lo caratterizzano fin dalla sua nascita. La vecchia Europa della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, che di fraternità ne offre in realtà sempre meno, fatica a reggere il confronto con un Paese minuscolo che è riuscito a canalizzare la rabbia e il dolore nel costituirsi come un laboratorio politico, sociale e culturale pressoché unico al mondo e come *** tale, ancora una volta, osteggiato proprio per ciò che è riuscito a divenire. E l’ambiguità di un approccio di comodo a far sì che l’Europa voglia credere che lo Stato d’Israele sorga per via della Shoah anziché, come invece sarebbe palese, suo malgrado; come dire che, se la catastrofe dell’ebraismo europeo non ne è la premessa, Israele non saprebbe esserne la conseguenza. Israele non costituisce, peraltro, un risarcimento per una tragedia che è tale proprio perché non risarcibile, ma è uno Stato plurietnico, che ha raccolto, nel corso di più di cento anni di evoluzione, persone, storie, culture e identità accomunate dal richiamo a un ebraismo plurale e diversificato quanto a origini e prospettive. Quale democrazia moderna, Israele vive le frizioni, le difficoltà, le tensioni, le speranze come anche le delusione di una società pluralista in costante trasformazione e si confronta con gli effetti della globalizzazione, dove la crisi dei vecchi ordinamenti geopolitici ma anche l’erosione delle sovranità nazionali, costituiscono elementi dell’agenda politica quotidiana, che al primo posto reca l’esigenza della sua legittimazione internazionale. L’esilio della coscienza che sembra sempre più pervadere la nostra Europa va riempito di coscienza presente. La speranza sta nei pochi «Giusti» (secondo una Tradizione, ve ne sono 36 in ogni generazione) che, seppure «antipatici» come scrive della Loggia, richiamano alla mente la fiammella accesa di fronte al buio e all’oscurità della coscienza e della barbarie.

Rav Roberto Della Rocca è direttore del Dipartimento Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane