10 Aprile 2024

Rav Riccardo Di Segni commenta la decisione di alcune strutture scolastiche di concedere una vacanza in occasione del Ramadan

Fonte:

www.shalom.it

Autore:

Riccardo Di Segni

Ramadan e Kippur

Sono questi giorni importanti di festa per il mondo islamico alla fine del Ramadan e a chi li celebra auguriamo di passarli in gioia e serenità.
In alcune strutture scolastiche italiane “di ogni ordine e grado” è stato deciso di concedere una vacanza per l’occasione e, malgrado le polemiche, se questa è una misura di attenzione e cortesia per una minoranza religiosa non ci pare una decisione criticabile.
Piuttosto quello che sembra criticabile è il ragionamento che è stato fatto da qualche parte per la concessione della vacanza. Un magnifico rettore ha scritto che lo faceva come “visibile segno di solidarietà per la popolazione palestinese di Gaza, in gran parte musulmana, sottoposta a un inaudito, incessante massacro”. In compenso la stessa autorità accademica concederà una vacanza alla vigilia del prossimo Kippur in ricordo del 7 ottobre.
Fermo restando il diritto di interpretare la drammatica situazione di Gaza con una propria visione politica più o meno discutibile, c’è qualcosa che non funziona in questo ragionamento. In primo luogo, se la celebrazione di una festa è un diritto religioso -e più avanti si riprenderà questo punto- questo diritto va protetto dalla legge e va esercitato a prescindere da qualsiasi evento politico o militare. Due miliardi di musulmani nel mondo e 2,7 milioni in Italia possono essere preoccupati, come tutti, per quello che succede a Gaza, ma la loro vita religiosa è un’altra cosa.
Secondo: nel conflitto di Gaza c’è anche una componente religiosa molto variamente declinata, ma semplificare la complessità rappresentandola con un simbolo religioso, la festa alla fine del Ramadan, che prova che questo sia un conflitto religioso, è distorcente. Piuttosto si tratta di un conflitto che nella dimensione locale è territoriale e in un’ottica più larga è parte di una guerra globale contro l’occidente. La religione rischia di diventare una scusa o un pretesto, e rispolverarla e usarla come il simbolo per l’occasione è pericoloso.
Terzo, ammesso e non concesso che la religione sia il simbolo del conflitto bisogna tener presente che il modello religioso islamico cui fa riferimento l’ideologia di Hamas o quella dei leader iraniani è difficilmente compatibile con i valori con cui è costruita la società occidentale.
Tornando al tema dei diritti religiosi la questione delle festività può essere elaborata in vario modo. Le comunità ebraiche, firmando l’intesa con lo Stato italiano, hanno indicato una modalità di compatibilità che potrebbe essere un modello generale. Le comunità ebraiche non chiedono che lo Stato si fermi durante le festività religiose, a cominciare dallo shabbàt, quanto che sia data agli ebrei che rispettano queste festività la facoltà di farlo: se lavorano, di non lavorare in quei giorni recuperando le ore perdute in diversi orari; se studiano, che possano assentarsi dalle lezioni o che le frequentino senza obbligo di fare cose proibite, come scrivere, portare libri e ora di usare mezzi elettronici. E soprattutto se ci sono esami e verifiche, che vi siano date alternative o supplementari che non pregiudichino il diritto di avanzare negli studi. E se vi sono elezioni politiche che siano concessi orari suppletivi. Non è interesse delle comunità interrompere il normale funzionamento delle strutture pubbliche nemmeno nel giorno di Kippùr; ma di non lasciare nessuno indietro perché rispetta una sua fede. Questa soluzione accomodante adottata dall’Italia rappresenta un progresso di civiltà notevole che contrasta visioni religiose esclusive da una parte o eccessivamente laiciste dall’altra. Adottarla anche per tutte le altre confessioni religiose che hanno interesse a richiederla risolverebbe questioni e polemiche inutili.