16 Febbraio 2021

Pedagogisti riflettono sul tema “a che età insegnare la Shoah?”

Fonte:

La Repubblica edizione di Torino

Autore:

Jacopo Ricca

A che età insegnare la Shoah? Un cartone apre il dibattito

I pedagogisti si dividono sulla storia animata delle sorelle Bucci, deportate da piccole ad Auschwitz Ma tutti concordano: serve l’aiuto degli adulti

Raccontare l’orrore della Shoah e la tragedia dei campi di sterminio alle elementari. Come farlo: ad esempio mandando in onda un cartone animato, che nel 2018 il ministero dell’Istruzione ha suggerito alle scuole medie e che gli autori hanno indicato adatto dagli 8 anni in su, anche in prima o seconda elementare? La questione è piuttosto spinosa ed è finita al centro delle polemiche dopo che la pedagogista dell’Università di Torino, Anna Granata, è intervenuta per raccontare i traumi denunciati da alcuni genitori di bimbi che avevano visto il cartone animato “La stella di Andra e Tati”, prodotto da Raiplay, durante il Giorno della Memoria. «Sono arrivate diverse segnalazioni delle reazioni dei piccoli dopo la proiezione: una bimba di 9 anni, Sofia, ha detto che preferisce morire che vivere in un mondo così. Mentre altri sono tornati a dormire nel letto dei genitori» ha spiegato la professoressa di Unito. Dopo aver visto il film Granata, che ha più volte riconosciuto l’importanza di ricordare la drammatica vicenda delle sorelle Bucci, di 4 e 6 anni, ha sostenuto che il film, che descrive «in maniera cruda e dettagliata la deportazione delle sorelle Bucci ad Auschwitz», non fosse adatto ai bambini più piccoli. Una presa di posizione, riportata su diversi quotidiani, che ha scatenato le proteste degli autori del film, ma anche della Rai che lo ha prodotto e del Miur che lo ha consigliato ai proprio insegnanti, ma solo per le medie. «Il cartone narra la storia vera delle sorelle Bucci deportate ad Auschwitz e poi fortunatamente scampate all’Olocausto, quindi indubbiamente racconta una vicenda drammatica. La narrazione tuttavia, d’intesa con i massimi esperti italiani della didattica della Shoah, con lo storico Marcello Pezzetti e con il patrocinio dell’International Holocaust Remembrance Alliance e dell’Unicef, è stata appositamente studiata per essere rivolta ai bambini e racconta la Shoah proprio dal loro punto di vista» hanno precisato i produttori in un comunicato. E un’altra pedagogista, Marina Santi, sollecitata dagli stessi produttori de “La stella di Andra e Tati”, difende il film: «In tutta la storia dell’educazione e del rapporto tra adulti e infanzia è noto che un posto cruciale è dato dal tema della paura e della violenza. I bambini attraverso la narrazione rielaborano il loro vissuto emotivo e lo trasformano in domande e pensiero che li aiuta a crescere – dice la docente di Didattica e Pedagogia Speciale dell’Università di Padova – Ciò che è fondamentale è che ogni racconto colga le domande dei bambini e trasformi paure in opportunità di costruire dialogo e crescita. Ma ciò deve essere accompagnato dalla presenza di adulti che accolgono, chiariscono, raccolgono i loro dubbi in contesti condivisi». Bruno Maida, storico dell’Università di Torino, grande esperto di memoria e studioso proprio dell’infanzia durante la guerra e l’olocausto, ha un’idea chiara: «Con i bambini piccoli non si affronta la Shoah: è possibile parlare di discriminazione, esclusione, leggi razziali, ma non degli aspetti più feroci dello sterminio. Il fatto che nelle elementari non si studi la storia contemporanea non è ragione sufficiente per non affrontare alcuni degli aspetti legati al Giorno della Memoria ma con bambini tra i7ei9 anni bisogna essere molto cauti». Santi è molto netta: «Chi pensa di piazzare un bambino davanti a un cartone animato o di lasciargli in mano un libro e che questo faccia da solo il percorso dialogico che spetta all’educazione, non ha capito molto dell’infanzia e sottovaluta il ruolo di mediazione che spetta al genitore o al docente. Più che contenuti protetti, i piccoli hanno bisogno di contesti protetti in cui poter condividere i loro pensieri sul mondo e la vita, così come si pone ai loro occhi, ma condividendo lo sguardo con fiducia verso l’altro».

Photo Credits: La Repubblica