9 Maggio 2025

Odio in rete e limiti giuridici: il caso Segre e l’illusione del Far West digitale

La diffamazione online rappresenta oggi una delle sfide principali per la tutela della reputazione individuale, soprattutto quando l’odio in rete si scontra con la dignità di persone simbolo della memoria storica. Il caso che ha coinvolto Liliana Segre ne è un esempio emblematico.

La diffamazione online nel caso Segre: la decisione del Gip

L’online e l’offline pari sono. Nessun cittadino italiano può pretendere di diffondere odio in rete e rimanere indenne da conseguenze. Questa, in sintesi, la posizione espressa dal GIP di Milano nel procedimento a carico di odiatori da tastiera che hanno preso di mira la senatrice, reduce dai campi di sterminio nazista, Liliana Segre.

Dopo aver partecipato alla Festa della Liberazione a Pesaro (della quale è cittadina onoraria), la senatrice a vita è divenuta bersaglio – sui profili social del sindaco della città, del Comune e di un parlamentare del PD – di una campagna particolarmente violenta.

Ora, il giudice Andrea Carboni ha deciso: di non accogliere la richiesta di archiviazione della Procura, alla quale la stessa Segre si era opposta, a carico di 17 persone; di disporre la prosecuzione delle indagini per il reato di diffamazione con l’aggravante della discriminazione dell’odio razziale; di iscrivere nel registro nove persone non ancora indagate; di disporre l’imputazione coatta per sette. Solleva molte perplessità la motivazione della richiesta di archiviazione della Procura: la sola frequenza dell’utilizzo del termine “nazista” nel dibattito politico dovrebbe comportare che lo stesso non vada inteso in senso storico.

Una tesi “originale” che il GIP ha per fortuna rigettato. Secondo il magistrato, l’accusa di nazismo per una reduce dai campi di sterminio integra “di per sé” la diffamazione, anche perché è la realtà dei fatti a smentire in maniera lampante gli autori dei post. L’Ufficio del PM dovrà anche identificare con nuovi accertamenti 86 account (l’unica archiviazione è stata disposta per lo chef Rubio).

Le responsabilità delle piattaforme digitali nella diffamazione online

Ma è l’atteggiamento degli Internet Service Provider a lasciare interdetti, anche se si appalesa perfettamente coerente con quanto emerso ormai da tanti, troppi anni. In particolare, Meta (proprietaria di Facebook e Instagram), e X hanno dato o daranno (X) riscontro alla richiesta della Procura solo per alcuni casi, a loro scelta. Ancora peggiore la posizione di Google, la quale ha rilevato, senza tener conto del fatto che il reato per il quale si indaga è stato commesso in Italia e quindi in territorio dove valgono le regole dell’UE, che la libertà d’espressione prevale sul potere d’indagine dell’Autorità giudiziaria.

Telegram non neanche risposto. Così il giudice nell’ordinanza: «Gli Internet service provider (…) non ritengono di essere assoggettati alla disciplina comunitaria in tema di discovery e data retention dei file di log. Ciò nonostante, in molti casi sono stati emessi decreti di acquisizione di dati di traffico telematico ed è stata sollecitata la collaborazione degli Isp».

Il suggerimento di Facebook e X di ricorrere alla rogatoria, secondo il GIP si scontra con la prassi degli USA di non accettare tali richieste nel campo della diffamazione perpetrata sui social. Il giudice Carboni poi va meritoriamente oltre la fattispecie concreta, ribadendo alcuni principi che, evidentemente, sono patrimonio comune della cultura, non solo giuridica, europea, e non altrettanto di quella degli States, specialmente dopo che tutta la Silicon Valley si è accodata a Elon Musk sulla scia di Donald Trump. Carboni statuisce che il web non può essere un terreno franco dove ogni insulto è consentito. “Lo schermo di un computer non è una barriera che assicura l’anonimato e la tastiera non è un’arma contro la quale non ci sono difese. Lo Stato è presente e andrà fino in fondo per tutelare i diritti di chi invoca il suo intervento”.

Il reato di diffamazione online secondo la legge italiana

Cosa prevede l’art. 595 del Codice penale?

“Chiunque (…) comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato(3), la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro”.

Il terzo comma contiene l’aggravante: “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”.

La diffamazione consiste perciò nell’offesa alla reputazione altrui; se essa avviene mediante la stampa o altro mezzo di pubblicità (come i social media) la pena può essere aumentata, proprio in virtù della diffusione maggiore del messaggio (o anche foto o commento) diffamatorio. Sull’elemento della diffusione appare interessante la sentenza della Corte di Cassazione 42783 del 2024.

La diffusione del messaggio come criterio per l’aggravante

I fatti. In un gruppo WhatsApp, di 156 utenti, un militare aveva pubblicato un commento ritenuto lesivo della reputazione di un collega. Il procedimento penale era stato avviato d’ufficio proprio per la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 227, comma 2, c.p.m.p. (identico al comma 3 di cui sopra). Il Gup presso il Tribunale militare di Roma ha assolto l’imputato applicando la causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto. La difesa ha appellato la decisione di primo grado per ottenere (plausibilmente) un’assoluzione con formula piena.

Non ottenendola, tuttavia, perché i Giudici di secondo grado hanno evidenziato sia il contenuto diffamatorio della pubblicazione, sia la procedibilità d’ufficio in ragione del numero di iscritti alla chat che rendeva sussistente la circostanza aggravante. In Cassazione la difesa ha reiterato la richiesta evidenziando la natura privata dei messaggi in una chat chiusa. La Corte ha ritenuto non sussistente la circostanza aggravante relativa al “mezzo di pubblicità” in quanto l’aggravamento di pena trova la propria ratio nella particolare diffusività del mezzo utilizzato perché l’offesa tende a raggiungere un numero cospicuo e indeterminato di persone.

La Corte ha però precisato quanto segue: il requisito della diffusività può certamente ritenersi sussistente con riferimento alle pubblicazioni su siti internet ad accesso libero (come Facebook) che risultano, quindi, equiparabili (sotto l’aspetto della offensività) a pubblicazioni a mezzo stampa.

Ad avviso della Corte, “la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”. Dunque, la Suprema Corte, pur accogliendo parzialmente il ricorso, ha statuito che i post sui social media sono potenzialmente lesivi, in modo grave, della reputazione di una persona.

Il web non è una zona franca per la diffamazione online

Nel caso di specie, la vicenda che vede coinvolta la senatrice Segre ha offerto al Giudice l’occasione per ribadire che nel nostro Paese nessuno può ritenersi immune dalle conseguenze dei propri comportamenti on line. Nel contempo, ha consentito di sperimentare ancora una volta la pretesa delle Big Tech a considerarsi, con il pretesto del “free speech”, “un po’ più uguali” rispetto al resto dei cittadini e delle aziende.