6 Novembre 2016

Nuovo film sul processo intentato dal negazionista David Irving contro Deborah Lipstadt

Fonte:

Corriere della Sera la Lettura

«Ho battuto chi nega la Shoah

Ora il film su di me serve a tutti»

Deborah Lipstadt, ebrea americana, venne querelata da David Irving e lo sconfisse in tribunale. Quella storia è diventata un libro e una pellicola. E una lezione di civiltà

Non è una memoria come un’altra. Ha paragonato Adolf Hitler a Giuseppe Garibaldi, ha sostenuto che le camere a gas fossero un’invenzione post-bellica dei vincitori. David Irving è lo storico inglese negazionista che nel 1996 portò in tribunale la scrittrice ebrea americana Deborah Lipstadt, citandola per diffamazione. Irving (Hutton, 24 marzo 1938) fu condannato a tre anni di carcere. La battaglia legale è diventata un film avvincente che, dopo l’anteprima alla Festa del cinema di Roma, Valerio De Paolis distribuirà da giovedì 17 novembre, mentre due giorni prima uscirà il libro pubblicato da Mondadori. II titolo è lo stesso: La verità negata. I tre protagonisti sono Rachel Weisz (interpreta Deborah Lipstadt), Timothy Spall (Irving) e Tom Wilkinson (è l’avvocato Richard Rampton che guidò il collegio difensivo della scrittrice, mentre David Irving si difese da solo).

Signora Lipstadt, la condanna di Irving poteva essere un monito per l’avanzata dell’estrema destra in Europa?

«Un verdetto non può cambiare le cose. Però la sentenza del giudice ha contribuito a indebolire ciò che io chiamo il negazionismo dell’Olocausto hardcore, quello duro e crudo, di coloro che dicono che non siano mai esistite le camere a gas, e che Hitler non voleva sterminare gli ebrei. Nel mondo occidentale ci sono anche persone perbene le quali non mettono in discussione il fatto che l’Olocausto sia avvenuto, ma poi dicono: siamo sicuri che fossero sei milioni gli ebrei uccisi? che il diario di Anna Frank ci racconta davvero come sono andate le cose? E via dicendo. Io la chiamo la sindrome del “sì ma”».

Sono i seminatori del dubbio.

«I negazionisti hardcore sono stati effettivamente decimati dal verdetto del giudice sul mio caso. Il sistema legale britannico prevede in questi casi che l’onere della prova spetti all’imputato. Toccò a noi provare che l’Olocausto non è un’invenzione. Ma la gente continua a negare fatti ed eventi storici. Michelle Obama riferendosi alla Casa Bianca ha detto: viviamo in un luogo costruito dagli schiavi. E le mie due figlie afro-americane nello stesso luogo giocano con il loro cane sul prato. Un opinionista conservatore ha replicato che in fondo gli schiavi in America non se la passavano così male, mangiavano tre volte al giorno, avevano un tetto sotto cui dormire. E una sorta di revisionismo sulla schiavitù».

Si è mai domandata per quale ragione intellettuali di sinistra come Ralph Dahrendorf chiesero la scarcerazione di Irving dopo il processo?

«Io stessa ero contraria alla sua incarcerazione. Non dev’essere la legislazione a stabilire che la negazione dell’Olocausto sia un reato. Sono a favore della libertà di espressione e sono contro il reato di negazionismo. Non si può discutere la storia in un’aula di tribunale. Se poi diventa un incitamento alla violenza e al razzismo è un’altra cosa. È stato Irving a denunciarmi per diffamazione, io non l’avrei mai fatto. Mi sono ritrovata in un processo a dimostrare che le cose che avevo dichiarato su di lui erano vere».

Lei contestò la scelta del suo collegio difensivo di non far testimoniare i sopravvissuti ai Lager.

«Ero contraria in una fase iniziale, ma presto, molto prima di quando si vede nel film, ho capito che la linea dei miei avvocati era giusta: chiamarli in aula avrebbe legittimato le affermazioni di Irving. I superstiti sarebbero stati controinterrogati da lui (che ha scelto di difendersi da solo), li avrebbe confusi, liati, avrebbe giocato l’emotività: si sarebbe parlato di un trauma che avevano realmente vissuto. Quello che abbiamo fatto è prendere le sue dichiarazioni sull’Olocausto, nazisti ed ebrei. E risalire alla fonte. I documenti che Irving citava a sostegno delle sue tesi erano falsi, distorti, manipolatori. Lui negava l’esistenza delle camere a gas, diceva che erano rifugi antiaerei, negava i fori attraverso cui passava il cianuro per avvelenare i deportati, sosteneva che si gasavano le saline che stavano per essere bruciate; quando obiettammo per quale utilità, non seppe controbattere».

Il cinema e la Shoah: un binomio che dura da tempo.

«Ho amato il documentario del 2000, Into the Arms of Strangers, di Deborah Oppenheimer, su circa diecimila bambini che gli inglesi accolsero e salvarono dai Lager, provenienti dalla Germania, dall’ex Cecoslovacchia e da altri Paesi. Come fiction, a parte il nostro film, mi è piaciuto Schindler’s List di Spielberg: come impatto, non per il valore artistico, perché su questo aspetto i miei preferiti sono Il pianista di Roman Polanski e Il figlio di Saul di Laszlo Nemes che ci porta dentro la realtà dei Sonderkommando, i deportati obbligati a collaborare nei Lager con i nazisti».

Su questo tema c’è spazio per la commedia?

«Di La vita è bella di Benigni ho apprezzato la prima parte, quella di belle persone, persone normali, ignare di andare incontro all’orrore. La seconda parte mi è piaciuta meno: la moglie si salva. Non può esserci happy end sull’Olocausto. Ma si può ridere. Nei miei incontri pubblici racconto barzellette su ebrei tedeschi».

Vienna ha deciso di distruggere la casa natale di Hitler a Braunau am Inn, che rischiava di diventare meta di pellegrinaggio da parte di neonazisti e nostalgici. È un errore cancellare le tracce scomode della Storia?

«È un errore ma capisco il pericolo. Quando Adolf Eichmann morì in Israele, fu cremato e le sue ceneri sparse nel mare, proprio per evitare eventuali devozioni postume. Sono felice di non dover prendere io quella decisione».

Sa che cosa fa oggi Irving, se continua a scrivere?

«Non ne ho idea. Ha rubato sei anni della mia vita. Gli ho già dedicato abbastanza tempo. Il negazionismo è una forma di antisemitismo, Irving è un razzista e gli interventi di Donald Trump nella campagna elettorale dimostrano che il razzismo è tutt’altro che morto. Tanti Irving vengono allevati nel mondo. È come la m… che calpesti. Non sto dicendo che la m… sia lui. Se non la pulisci te la porti in casa, finisce sul pavimento. Se ti fermi sulla soglia di casa e la togli, eviti guai. Irving con il processo si è fato pubblicità ma non gli è servito. Mi ricorda il killer che uccide i genitori e poi dice: sono orfano, abbiate pietà di me. Lo abbiamo messo a nudo»