8 Gennaio 2021

Lia Tagliacozzo, La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia, Manni, San Cesario di Lecce 2020

Fonte:

Moked.it

Autore:

Gadi Luzzatto Voghera

Montagne di memoria

Il bel libro di Lia Tagliacozzo, La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia (Manni, San Cesario di Lecce 2020) non può lasciare indifferenti. Dico subito che non ne scriverò una recensione vera e propria, che metta il lettore in condizioni di farsi un’idea complessiva del volume: già l’hanno fatto bene altri su queste pagine e non credo di poter fare di meglio. Il libro va letto e invito a farlo. E non posso non scriverne, provando a interloquire con la scrittura brillante e spigliata dell’Autrice, che si butta in un violento corpo a corpo con i mostri interiori che popolano l’immaginario di noi generazione di mezzo. Parlo dei nati negli anni Sessanta del Novecento, figli dell’ottimismo del baby boom, generati da genitori che si erano salvati chissà come dalla guerra. Che se poi quei figli sono anche ebrei, allora la questione si fa ulteriormente seria perché essi – lo dice bene Lia Tagliacozzo – sono vivi per un puro accidente della storia. Sono stati generati, cioè, solo grazie al fatto che i loro genitori si sono sottratti in vario modo (spesso per caso) dal piano di sterminio globale pensato da Hitler e dai suoi volonterosi ed efficienti carnefici. Si tratta di una condizione allo stesso tempo invidiabile e insidiosa. In generale (fatti salvi casi particolari) abbiamo vissuto bene. Quello che avevano perduto i nostri genitori (infanzie rubate, beni distrutti, fame, paura, distacchi e tanta morte) ci è stato risparmiato. Siamo stati educati in anni di crescita economica frenetica, di ricostruzione, di entusiasmo. Certo, era un periodo colmo di contraddizioni, crescevano tensioni sociali e consapevolezza politica, ma non ci sono mancati elementi formativi condivisi e tutto sommato continuativi: un percorso scolastico assicurato, inedite comodità casalinghe, vacanze in famiglia, letture libere come libera è stata per noi la possibilità di esprimerci culturalmente e politicamente. Decisamente una generazione privilegiata. Con qualche insidia che – alla lunga – ha creato diverse condizioni di conflittualità interiore che hanno fatto fatica ad emergere. Ne segnalo tre. La prima insidia è il silenzio. I nostri genitori ci hanno voluto proteggere non solo offrendoci beni materiali e un presente di pace e relativa serenità, ma hanno spesso fatto calare un velo di silenzio su molti aspetti della tragedia bellica. Lo hanno fatto in molti modi: Lia Tagliacozzo ricorda i silenzi della sua famiglia, altri hanno scelto strade diverse, sempre molto dolorose. Silenzio significa non parlare di una determinata questione, celandone completamente l’esistenza a chi di fatto non è messo nelle condizioni di valutare cosa ci sia dietro al silenzio perché non lo può individuare. Il risultato a livello sociale è stato pesante per tutto il Paese. Decenni di testimonianze mancate, di racconti non narrati, hanno creato un vuoto che sul piano emotivo non può non aver pesato. La scelta di Lia Tagliacozzo in questo senso è stata coraggiosa. Ha percepito che qualcosa non andava, che c’erano troppi non detti, che mancavano i documenti famigliari per assicurare una ricostruzione storica degli anni della guerra, dei conflitti fra giovani e vecchi di allora, fra esponenti di quella disperata umanità che tentò di sopravvivere alla guerra spesso senza riuscirci. E si è messa al lavoro. Non si è accontentata del silenzio (perché la provocava) e neppure delle testimonianze pur volonterose di chi a un certo momento ha comunque deciso di ri-memorizzare. Non è un caso che il titolo del libro (finalmente!) non parli di Memoria. Qui si fa storia, familiare certo, interiorizzata, ma storia. Con documenti, con ricostruzioni, e con giudizi, sì, con giudizi, perché se siamo umani abbiamo anche il diritto di dire che in determinate occasioni e rendendo comunque bene il contesto, be’, qualcuno si è comportano bene (e va detto) e qualcun altro si è comportato male (e va detto anche questo).

Il secondo elemento sono le montagne, una metafora del nostro deserto, ma molto reale. Le montagne per gli ebrei italiani sono state nel Novecento una passione su cui prima o poi bisognerà scrivere qualcosa di serio e documentato. Già ben prima della guerra i monti erano la meta di villeggiature in qualche modo obbligate per le famiglie della media borghesia ebraica italiana. Una componente sociale urbana da molte generazioni aveva trovato paradossalmente nei monti un ambiente congeniale. Così durante la guerra le tragiche vicende di fuga o di lotta partigiana (che spesso si confondevano) avevano proprio le montagne come cornice. La nostra generazione è stata educata con una visione distorta ma innamorata dei monti. Vacanze privilegiate là dove anni prima si era combattuto con il moschetto in mano o sui sentieri dove si tentava la fuga (e dove anche oggi migranti disperati tentano di trovare le loro strade). Canti alpini adattati a parole partigiane insegnati a noi che a nostra volta li abbiamo trasmessi ai nostri figli. Probabilmente c’era molta retorica, ma anche un immenso amore e l’idea che forse la fatica di una gita, la sete, lo spuntino al sacco, il freddo, la pioggia potevano restituire un rapporto genuino con un ambiente congeniale a noi quasi per via genetica. Il terzo elemento insidioso, che sento vero e provocatorio, è connesso all’intemerata iniziale che Lia Tagliacozzo dedica a indefiniti scrittori ebrei della “giovane generazione” che hanno la sfrontatezza di porsi allo stesso livello dei grandi di metà Novecento (“Saba, Svevo, Ginzburg, Levi e tutti gli altri”). Ho qualche perplessità nell’assegnare questi effettivamente grandi pensatori alla categoria univoca di scrittori ebrei, ma è senza dubbio vero e pesante il silenzio (un altro silenzio!) che incombe sul nostro presente e che ci impoverisce come società nel suo insieme. Parlo (ne parla l’Autrice) degli “ebrei d’Italia che stanno zitti. Stanno zitti e acconsentono. A parte i grandi, quelli della letteratura, dei libri veri, dell’antifascismo, della coscienza politica ed etica di un intero paese. Ma gli altri, gli ebrei normali, in questi ultimi decenni non hanno detto molto anche se a volte hanno strillato forte. È che per dire qualcosa bisogna avere idee, portare un contributo originale. Bisogna prima limare le parole e poi pesarle visto che sono le parole pesanti quelle che hanno valore. Ma loro, ‘i giovani scrittori ebrei’, si sono accodati al carro. D’altronde si sa, adesso gli ebrei vanno di moda”. Questo silenzio degli ebrei impoverisce tutti noi. Per secoli, e con sempre maggior intensità a partire dall’età liberale, ebrei d’Italia hanno fatto della loro esperienza formativa (culturale, politica, letteraria e religiosa) una risorsa da mettere a disposizione della società. Parlavano, scrivevano, intervenivano. Spesso “contro”, da antagonisti (l’unico vero ruolo riconoscibile degli intellettuali). Altre volte come espressione di potere. Ma parlavano. Oggi non più, sempre meno, e si tratta di un’assenza che pesa sia sulla società italiana nel suo complesso, sia sulla vivacità della piccola comunità ebraica.

Due diversi tipi di silenzio e le montagne di mezzo. Per dirci che un’intera generazione ha il diritto di fare i conti con il passato dei padri e dei nonni, ma deve guardare decisamente avanti senza fossilizzarsi su un tema (la Memoria, di cui troppo spesso si parla a sproposito) che rischia di anestetizzare il pensiero. Lia Tagliacozzo sceglie la militanza (dobbiamo intervenire), unita a un anelito di redenzione (la componente mistica è essenzialmente di sinistra, come già molti hanno avuto modo di scrivere), accompagnata da un concetto – la “gentilezza” – di cui il mondo ha pur sempre molto bisogno.