9 Giugno 2020

La semiologa Valentina Pisanty commenta il caso del post pubblicato da un consigliere comunale che equipara la scuola italiana ad Auschwitz

Fonte:

la Repubblica edizione di Firenze

Autore:

Maria Cristina Carratù

Pisanty “Si è perso del tutto il valore storico della tragedia dei lager nazisti

Un paradosso, una illogicità totale: un consigliere comunale leghista, che (su quali basi non è chiaro: i box anti Covid sono forse anche solo lontanamente accostabili ai campi nazisti?) paragona la scuola paralizzata dall’emergenza Covid a un lager. E che alla fine, tempestato di critiche, ritira e si scusa. Ma la domanda resta: come si spiega un simile corto circuito? «Ormai è la regola che persone di scarsa cultura, incapaci di misurare le parole, e in cerca di visibilità, ogni volta che si scagliano contro un avversario cadano nella cosiddetta legge di Godwin, secondo cui in una discussione polemica in rete salta sempre fuori il paragone con Hitler», spiega Valentina Pisanty, semiologa, autrice di I Guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani), in cui analizza i rischi legati alla `ritualizzazione’ di un certo modo di fare memoria della Shoah. Ma davvero è possibile banalizzare il Male Assoluto? Purtroppo sì, sostiene Pisanty, basti pensare, fra i tanti, tristi esempi di riduzione a meme (sorta di `icona virale’ del web) di immagini estrapolate dal loro tragico contesto, l’adesivo con Anna Frank in maglietta della Roma ideato dai tifosi laziali. E visto che i casi si ripetono – anche se, dice la semiologa, «sarebbe bene chiedersi se valga la pena, reagendo ogni volta in automatico, regalare a questa gente il loro quarto d’ora di visibilità» -, e le destre xenofobe hanno ovunque rialzato la testa nonostante due decenni di commemorazioni globali, è il momento di farsi qualche domanda sulle responsabilità culturali, collettive, di una simile degenerazione. Di chiedersi, cioè, come abbia potuto l’orrore prestarsi alla maldestra condivisione su Facebook di un politico di provincia, e «Auschwitz, privato di ogni contenuto storico, diventare un semplice termine di paragone iperbolico, utilizzabile per delegittimare un avversario qualunque, per un motivo qualunque». La risposta non è facile da digerire: la banalizzazione, la standardizzazione, nostro pane quotidiano nella comunicazione, nella politica, nell’economia, nel pensiero, hanno eroso, a poco a poco, «anche a causa delle forme ripetitive, celebrative, istituzionalizzate, `doverose’, sancite per legge, che ha assunto la memoria», anche un’esperienza totalizzante come la Shoah. «Una certa dose di banalizzazione e di retorica», spiega Pisanty, «è stato, in origine, il prezzo da pagare perché quei contenuti storici, altrimenti ristretti all’esperienza di una specifica area di persone, venissero proiettati al centro della consapevolezza collettiva, della `enciclopedia’ delle nostre informazioni u ciò che siamo». Via via, però, «al successo comunicativo dell’operazione ha corrisposto una crescente perdita del valore storico dell’esperienza evocata, e un’enfasi crescente posta sul versante della memoria, raccontata in prima persona dai testimoni». A rubare la scena, così, è stata «la narrazione di esperienze soggettive, fortemente identitarie», che per loro natura si sottraggono al confronto, «e la cui forza non sta nelle argomentazioni, ma nell’autorevolezza a prescindere dei testimoni». Il tutto all’interno di una cornice comunicativa standard (lo schema vittima/carnefice), «sottratto allo spazio della dialettica e consegnato, così `sacralizzato’, a tutti». Anche, inevitabilmente, a chi voglia appropriarsene per riferirlo a un contesto traumatico del tutto diverso, con altre vittime e altri carnefici (veri o presunti). Di ben altro, invece, ci sarebbe stato bisogno, avverte Pisanty: e cioè che «su un argomento così centrale per la storia dell’Europa, la trasmissione della conoscenza avvenisse soprattutto attraverso l’analisi, la critica storica, l’indagine sull’eccezionale complessità di quegli eventi», di cui fa parte anche l’interrogativo (sempre aperto) sulla loro indicibilità’. Naturalmente gli intenti originari del `fare memoria’ erano ottimi, ma forse è il caso di aggiornarci. E di recuperare in fretta, per evitare nuovi, agghiaccianti, meme, una doverosa (questa sì) consapevolezza storica di ciò di cui si parla.