10 Dicembre 2018

Intervista su omofobia ed antisemitismo a Mounir Baatour, fondatore della prima associazione Lgbt tunisina

Fonte:

La Stampa

Autore:

Anna Zafesova

Tunisia, il paradosso gay “Ora che siamo più liberi rischiamo più carcere”

«In Tunisia un omosessuale non solo rischia la prigione, è una condanna a vita, il carcere non ci farà smettere di essere gay». Il Paese dove è nata la primavera araba ha fama di essere all’avanguardia nel mondo islamico per rispetto dei diritti, ma l’avvocato Mounir Baatour, leader del Partito liberale e fondatore di Shams, la prima associazione Lgbt tunisina, denuncia l’aumento delle condanne per omosessualità, più di 70 nel 2017.

Perché accade proprio in Tunisia?

«Perché c’è maggiore libertà. È un paradosso. Abbiamo avuto la libertà di espressione e di associazione, ma l’hanno avuta anche coloro che odiano i gay. È il prezzo del progresso dei diritti Lgbt».

In cosa si manifesta questo progresso?

«Prima della rivoluzione i media ci chiamavano “pervertiti”. Oggi ci chiamano “omosessuali”, non è più un insulto. Abbiamo potuto iniziare la campagna per l’abolizione dell’articolo 230 del codice penale che punisce i rapporti omosessuali con fino a tre anni di prigione».

È un obiettivo realistico?

«Nel parlamento non c’è una maggioranza sufficiente, proponiamo di procedere a tappe. Innanzitutto, abolire i test anali cui la polizia sottopone chi è sospettato di omosessualità. Oltre a essere stati equiparati dall’Onu alla tortura fisica e mentale, non hanno nessun valore scientifico, ma chi li rifiuta ammette di essere “colpevole”. Chiediamo di vietare l’utilizzo di dati personali come foto sui telefonini come “prove”. Ci sono stati gay che avevano chiamato la polizia perché vittime di reati, ma invece di venire difesi sono stati incriminati».

Quando pesa l’islam?

«In Tunisia è molto conformista: si fa il Ramadan, si fa il sacrificio dell’agnello, e poi lo si mangia con la birra. È la religiosità ipocrita e superficiale di una società retrograda, patriarcale, poco istruita. L’omosessualità è profondamente radicata nella cultura islamica. Ci sono stati califfi e poeti gay, poemi che cantavano l’amore omosessuale. Tra l’altro, il famigerato articolo 230 del codice penale tunisino è un retaggio coloniale francese».

La Tunisia è uno dei Paesi che fornisce più reclute ai movimenti jihadisti. Perché?

«La sociologia risponde che è colpa della povertà, di una popolazione ignorante e quindi sensibile alla propaganda islamista. Non condivido questa ipotesi: quasi tutti i tunisini dell’Isis erano pluridiplomati, venivano da famiglie benestanti. I seguaci dell’estremismo islamico in Tunisia restano una minoranza, ma è di nuovo il paradosso della libertà: da noi si può predicare tutto, anche l’islam più violento, che in Marocco, per esempio, è vietato».

Nei Paesi emergenti, non solo musulmani, spesso i diritti Lgbt sono visti come una questione che preoccupa solo una minoranza di intellettuali, mentre i veri problemi sono la povertà e il lavoro, ed è inutile predicare i diritti ai poveri.

«La povertà e l’arretratezza non si possono sconfiggere in un giorno, ma è impossibile senza i diritti. Noi non rivendichiamo i diritti dei gay occidentali come i matrimoni o la procreazione assistita. Chiediamo soltanto di non finire in prigione, di avere la stessa giustizia di tutti i cittadini. Oggi non c’è gay tunisino che non voglia emigrare, lasciano anche lavori ben pagati e belle case, per chiedere asilo in Europa».

Lei crede che la battaglia per i diritti umani implichi uno scontro con le istituzioni e l’opinione pubblica, o preferisce un approccio più graduale, in attesa che la società maturi?

«È un dilemma eterno. Lo aveva anche il primo presidente tunisino Habib Bourghiba, che abolì la poligamia e introdusse l’aborto e il divorzio invece del ripudio della donna. La società non è mai pronta, va spinta, soprattutto se è arcaica e arretrata come quella arabo-musulmana. Ci vuole la volontà politica, e coraggio. Quando abbiamo fondato Radio Shams, tuttora l’unica radio Lgbt nel mondo arabo, siamo stati inondati da insulti e minacce di morte. Dopo, l’opinione pubblica si è abituata, stiamo diventando qualcosa di normale».

Questo atteggiamento più pacato si manifesta anche verso Israele?

«Il livello dell’antisemitismo e dell’antisionismo resta altissimo. La nomina, poche settimane fa, di un ebreo, Rene Trabelsi, a ministro del Turismo ha scatenato una campagna violenta contro di lui. La stessa che venne lanciata contro di me quando ho proposto di normalizzare le relazioni con Israele: sono stato accusato di “tradimento” per aver detto che l’ostilità verso lo Stato Ebraico non fa parte dei problemi della Tunisia».