1 Luglio 2020

Il sociologo Luigi Manconi propone una riflessione sul razzismo

Fonte:

La Repubblica

Autore:

Luigi Manconi

Italiani brava gente

Oppure no?

Il re del Belgio chiede scusa al Congo per il passato coloniale. Gli Usa soffrono le conseguenze dello schiavismo. Ma da noi vince la rimozione

L’ interpretazione più profonda, sotto il profilo storico e sociologico, della natura del razzismo negli Stati Uniti, l’ha offerta Cassius Clay. Convertitosi all’Islam, e adottato il nome di Muhammad Ali, nel 1967 il grande pugile spiegò così il suo rifiuto di andare a combattere in Vietnam: «La mia coscienza non mi permette di sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai linciato. Non hanno mai stuprato o ucciso mia madre e mio padre». Insomma, non si può comprendere il razzismo negli Stati Uniti se non richiamando il peso enorme che nella storia americana ha avuto il fenomeno della schiavitù con il suo strascico di orrori. Le sperequazioni tra i gruppi etnici, le condizioni di generalizzata disparità, le discriminazioni e le violenze rimandano, tutte, a quell’indelebile “macchia umana”. Qui, il riferimento al romanzo di Philip Roth è intenzionalmente forzato ma forse utile a segnalare il connotato quasi biologico della patologia sociale evocata: a tal punto è antica e innervata nell’identità degli americani “la colpa” dello schiavismo, da diventare impronta incancellabile e traccia permanente. Nella pressione del ginocchio del poliziotto Derek Chauvin che blocca il respiro di George Floyd, c’è la memoria della sopraffazione bianca sul corpo nero. Questo vale per gli Stati Uniti e in parte per l’Inghilterra, ma non per l’Italia Nel nostro paese – oltre all’assenza del fenomeno della schiavitù – l’esperienza del colonialismo non è stata pensata e riconosciuta come un fattore di inquinamento dell’identità nazionale, eppure in tal senso ha operato, sia pure marginalmente. Ciò ha assecondato più una dinamica di rimozione che un percorso di autentica elaborazione del passato coloniale e delle responsabilità individuali e collettive, mostrando una drammatica incapacità di problematizzare la questione dei crimini di guerra commessi, a vantaggio dell’eterna retorica degli “italiani brava gente” (nonostante la lezione di Angelo Del Boca). Con “problematizzazione”, mi riferisco, in sintesi, al processo di analisi critica e autocritica di un fatto o di fenomeno, al fine di individuarne cause e responsabilità. Nell’intento di porre riparo, simbolicamente e materialmente, ai suoi effetti negativi. È quanto si appresta a fare la Monarchia belga che, attraverso le parole di re Filippo, ieri ha espresso il suo «rammarico per queste ferite del passato, il cui dolore è oggi alimentato dalle discriminazioni ancora presenti nelle nostre società». In Italia, il meccanismo della rimozione si ripropone anche in tema di antisemitismo. A parte le responsabilità di regime e quelle personali (per esempio degli zelanti scrittori de La difesa della razza), non adeguatamente sanzionate nemmeno sul piano morale, è mancato un vero esame di coscienza collettivo sui silenzi e le omertà, sull’indifferenza e la correità nell’applicazione delle leggi razziali del 1938 e nelle persecuzioni antisemite durante l’occupazione tedesca Nessuna tematizzazione critica, come pure sarebbe stato necessario, considerato che – accanto a forme di solidarietà e di protezione -vi furono delazioni e tradimenti, denunce anonime e attività di sciacallagglo. Su tutto questo, nel dopoguerra, si è affermata la tendenza a voltare pagina e l’antisemitismo è sopravvissuto innanzitutto nella sua espressione popolare. Quest’ultima, continuava a essere alimentata dalla tradizione cristiana che solo col Concilio Vaticano II abbandonò l’imputazione di deicidio per il popolo ebraico; e solo quarant’anni dopo la conclusione della II guerra mondiale, con la visita di Papa Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, arrivb a indicare negli ebrei «i fratelli maggiori nella fede». Ma, alla radice religiosa dell’ostilità popolare contro gli ebrei, si deve aggiungere il peso di una certa cultura di sinistra (dove pure era presente una forte simpatia per il primo sionismo) di ispirazione anti-elitista. Una cultura che ha ritrovato vigore a seguito di due eventi internazionali: il conflitto medio-orientale e quello israelo-palestinese, e, più di recente, le grandi crisi finanziarie che ripropongono l’antica leggenda nera del “complotto” demo-pluto-giudaico (qui, accanto ai Rothschild e ai Rockfeller, emerge la figura del finanziere ebreo Soros, odiato da neofascisti e sovranisti ma inviso anche a un certo sinistrismo). In estrema sintesi, in Italia (dove pure l’allarme non ha raggiunto i livelli drammatici della Francia e nemmeno della Germania) si perpetuano più forme di antisemitismo. Una prima connotata dall’inconsapevolezza, non per questo meno odiosa e comunque capace di riprodurre il pregiudizio; una politicizzata e radicalizzata, che vede coinvolti gruppi di estrema destra, ma anche frammenti di estrema sinistra; un’altra ancora, di tipo cospirativo, che accompagna da secoli i rapporti tra le comunità ebraiche e gli stati di appartenenza. In definitiva, è come se la società italiana avesse metabolizzato le due colpe storiche del colonialismo e dell’antisemitismo, senza averle mai elaborate adeguatamente, ma avendole rimosse attraverso strategie di ridimensionamento e di neutralizzazione. Così che l’antisemitismo e il colonialismo, all’interno del razzismo contemporaneo del nostro paese, si presentano come componenti decisamente minoritarie. E non sembrano incrociare, e tantomeno alimentare, almeno per ora, le forme via via più diffuse di intolleranza etnica. Da quanto scritto, consegue che il razzismo italiano, nella sua attuale configurazione, pub essere definito come un “razzismo giovane”, un neo-razzismo, dotato di radici lunghe ma esili, sviluppatosi intorno ai flussi migratori che hanno interessato il nostro paese a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Un razzismo, dunque, che cresce nella fatica e, spesso, nel dolore di una convivenza difficile tra italiani e stranieri. Partiamo da un’affermazione che – nella sua nettezza – può apparire avventata: gli italiani non sono razzisti. Una simile dichiarazione ha, ovviamente, la stessa fragilità del suo rovescio speculare. E ciò perché la domanda “gli italiani sono razzisti?”, così spesso ricorrente nella discussione mediatica, è una scemenza sesquipedale, per un motivo elementare: perché contiene lo stesso dispositivo di omologazione che è il principio costitutivo del razzismo stesso. All’opposto, un metodo per eccellenza non-razzista di leggere la realtà (compresa la realtà delle disuguaglianze e delle tensioni etniche), è quello di non attribuire a una collettività (comunità, città, nazione) gli orientamenti e i comportamenti di una minoranza ancorché ampia. Dunque, è indubbio che in Italia cresce il razzismo, in quanto aumentano gli atti di intolleranza e di violenza, i gruppi dichiaratamente razzisti e il favore silenzioso da parte di settori della società. Ma ciò che connota la situazione italiana è altro: è, piuttosto, la crescita della xenofobia. II termine definisce esattamente il fenomeno: la paura (la fobia) verso lo straniero (il non conosciuto, l’ignoto) e, di conseguenza, un sentimento di diffidenza nei con fonti di culture, stili di vita e comportamenti che appaiono estranei e, perciò stesso, minacciosi. Attenzione: tutto ciò non è destinato né fatalmente né rapidamente a tradursi in razzismo, ovvero in aggressività e discriminazione. Tra la xenofobia e l’ostilità violenta contro lo straniero, si trova un’ampia zona grigia dove si manifesta lo smarrimento di gruppi sociali sottoposti a stress dalla relazione difficile e dalla temuta competizione con i nuovi arrivati. In questo quadro, la premessa che introduce tante voci e tante proteste – «Non sono razzista, ma…» – significa molte cose. Considerando questa proposizione, con il linguista Luca Serianni, abbiamo notato come la prima parte («non sono razzista») assuma via via una cadenza rituale, mentre il «ma» oppositivo cresce di dimensioni e di peso, fino a diventare dominante. A volte quella stessa formula sembra proporsi come vera e propria dissimulazione: un artificio retorico destinato esclusivamente a travisare e ritardare il pieno manifestarsi di ciò che finora è stato taciuto, introducendo affermazioni altrimenti indicibili, come «i romeni sono stupratori» o «1 senegalesi sono spacciatori». Tuttavia, non si può ignorare che proprio l’avversativa introdotta da quel «ma» rivela come il razzismo continui a ricadere sotto una qualche forma, certo residuale, di tabù sociale e di interdizione morale. Da qui discende un’ulteriore interpretazione di quella stessa formula. Essa può tradursi in una richiesta confusa e talvolta addirittura disperata: «Aiutatemi a non diventare razzista». È, in qualche modo, un grido di aiuto proveniente da individui e gruppi sociali che patiscono la crisi del sistema di welfare, indotti a individuare l’origine dell’impoverimento di risorse e di servizi nella presenza di concorrenti stranieri, ma indisponibili a fare di essi il capro espiatorio delle proprie angosce. Qui, quelle che sono state le grandi agenzie di formazione, dalla Chiesa cattolica ai partiti politici, rivelano la loro crisi di senso e di funzione educativa. Ecco, se nessuno ascolterà quel grido di aiuto, c’è da preoccuparsi seriamente.