16 Luglio 2025

Il professor Massimo Giuliani commenta le “lezioni di ebraismo” di Vito Mancuso

Fonte:

Avvenire

Autore:

Massimo Giuliani

Paragonare sionismo e nazismo una semplificazione pericolosa

L’ebraismo è una tradizione vivente e non può essere ridotto a citazioni di singoli versetti del Deuteronomio, estrapolati dal contesto storico e privati dell’interpretazione rabbinica

Domenica scorsa, su La Stampa, Vito Mancuso ha scritto un lungo articolo che, prendendo a pretesto il dramma di Gaza e l’angosciante guerra tra Israele e Hamas, sembra voler impartire una lezione teologica sull’essenza dell’ebraismo e sul sionismo. Quest’ultimo è fenomeno storico complesso, ad un tempo culturale e sociale oltre che religioso e politico, e non può essere liquidato con l’aberrante categoria di “nazi-sionismo”, sdoganata dalle piazze propal senza reticenze o il benché minimo senso critico. Ma non varrebbe la pena indignarsi per i suoi giudizi personali, seppur usati con estrema irresponsabilità pubblica, se l’articolo non argomentasse che le radici del “nazi-sionismo con la kippà” si trovano in testi sacri come il Deuteronomio (quinto libro del Pentateuco, che fa parte della Bibbia cristiana, oltre che della Torà) e nella stessa religione ebraica. Associare o equiparare il sionismo al nazismo è una perversione storica, dettata da puro accanimento ideologico. Si possono legittimamente criticare le politiche militari e le strategie belliche dell’attuale governo israeliano, e persino stigmatizzare parole e azioni di alcuni suoi ministri, ma non si può ascrivere alla “religione ebraica” la logica di quelle politiche. Tanto meno l’attualità del conflitto mediorientale giustifica una rappresentazione dell’ebraismo piegata, oltre l’oggettività storica e senza riguardi per la sua enorme multiformità, all’ossessione di trovare nei testi sacri ebraici il male che si intende stigmatizzare o il bene che si presume di difendere. È poi del tutto pretestuoso, e contrario a ogni approccio critico, scindere l’ebraismo in due essenze, una spirituale (supposta buona e accettabile) e una politica (ovviamente cattiva, demoniaca sin dall’origine). Chi si muova in questo schema rischia di accusare proprio la Bibbia, o almeno alcune sue pagine, di fomentare odio e razzismo. Ma qui si accusa la Bibbia, anzi la Torà, al fine di accusare chi l’ha ricevuta, elaborata, tramandata e interpretata per secoli, e una siffatta impresa può essere compiuta solo ricadendo nelle fragili contrapposizioni e nelle sterili precompresioni religiose di un passato che la cristianità si è da tempo lasciata alle spalle. E come nell’ebraismo non esiste un’essenza malvagia, non esiste neppure un’essenza opposta, angelicata e sigillata in una purezza tanto spirituale quanto autistica. Lascia senza parole, poi, che si voglia rintracciare quest’essenza buona in un coccio archeologico di tremila anni fa, di cui riferisce Amos Oz in un suo libro e nel quale si perora la causa di orfani e vedove (perorazione che, Torà a parte, è già nelle leggi del codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C.). L’ebraismo in carne e ossa, non quello di un reperto antico che è pari a un fossile, si trova in una continuità vivente di Bibbia e Mishnà, di Talmud e midrashim e codici halakhici, illuminata dall’ininterrotta catena dei maestri di Israele. Additare l’autentica fede ebraica nel coccio di cui parla Oz (non il mago, ma lo scrittore), è assai simile a trovare il vero cristianesimo in un frammento catacombale, ignorando i Vangeli e l’unità ermeneutica tra Tanakh e Nuovo Testamento, censurando i padri e i dottori della Chiesa, i concili, i papi e i vescovi, e il codice di diritto canonico. Un progetto di “ristrutturare completamente l’esegesi e l’ermeneutica dei testi” ossia della Bibbia, tesa a rimuovere versetti e capitoli oggi ostici alla nostra comprensione, significa ripetere l’errore di Marcione diciotto secoli dopo. Quella continuità porta i nomi, in ebraico, di masorà e di qabbalà ossia di “tradizione”, la quale rende inseparabili scrittura e oralità, fedeltà e innovazione, autorità del Testo e autorevolezza dei maestri che lo devono continuamente reinterpretare. Chi ostracizza i testi o ne propone radicali censure è spesso ignaro – cioè ignorante – dei profondi percorsi di studio e di analisi che li hanno resi “sacri” nel corso dei secoli, senza con ciò divinizzarli. Ancora qualche breve annotazione, per meglio spiegare l’errore di chi si erge a giudice prima di aver compreso. Il giudaismo non è mai stato una religione nel senso moderno-illuministico del termine, e a ben vedere definirlo “religione” è assai improprio. Si tratta di religione per analogia, non per sua natura. Israele è da sempre anzitutto un ‘am e una kehillà, un popolo-nazione-comunità, tale in forza della sua lingua, di cultura e folklore, di una patria storica e anche, perché no?, di una rigorosa prassi religiosa. Le molte lingue usate dagli ebrei e la loro diaspora non hanno rimosso, semmai rafforzato la coscienza di essere nazione, ben prima che in Europa questo concetto venisse stuprato dai nazionalismi esasperati tra Otto e Novecento. Inoltre, il rapporto del mondo ebraico con i propri testi sacri non è di tipo fanatico o idolatrico, perché essi non sono presi alla lettera. Nessuna halakhà o normativa ebraica è mera applicazione della Torà scritta. È invece tipico di una mentalità fondamentalista pensare che le scelte politiche dell’attuale governo israeliano derivino da qualche versetto del Deuteronomio (estrapolato dal contesto e dai commenti rabbinici che lo spiegano). Usare le Scritture ebraiche (Torà e Talmud in particolare) per delegittimare la fedeltà degli ebrei alla loro identità, per disprezzarne la fede e convincerli che il vero ebraismo è altra cosa da quel che praticano e credono, ecco il tratto peculiare della lunga storia dell’antigiudaismo a matrice religiosa, per il quale gli unici ebrei buoni erano quelli che smettevano di essere tali e si convertivano alla fede cristiana. Infine, lo schema di un Israele spirituale versus un Israele politico (non si diceva “carnale”?) non evoca tanto una dialettica paolina, assai meno antiebraica di quel che comunemente si pensi, quanto tradisce un dualismo di tipo gnostico, a cui in vero ripugnano le idee stesse di rivelazione, di presa in carica del governo del mondo, di terra promessa e persino, se mi si permette, di “resurrezione della carne”. La gnosi di certi teologi è agli antipodi sia della tradizione ebraica sia della fede cristiana e ha presupposti manichei che la rendono del tutto incapace di comprendere non solo l’ebraismo ma anche l’agone della storia e le odierne sofferenze dei popoli in conflitto.