18 Marzo 2021

Il professor Fabio Levi riflette su un recente caso di antisemitismo

Fonte:

La Stampa edizione di Torino

Autore:

Fabio Levi

Sviste

Di fronte ai recenti episodi di ostilità antiebraica è un falso alibi aspettarsi che siano gli ebrei e i loro organismi rappresentativi a dover reagire per primi, come se si trattasse di una tenzone a due fra un’accolita di estremisti e la minoranza dei loro nemici giurati. Ad essere colpiti da quella forma di ostilità così chiaramente connotata, insieme al mondo ebraico, sono infatti tutte le componenti della società, e in particolare la qualità della convivenza e del dibattito fra di loro. Non c’è dunque nessuno che possa chiamarsi fuori da vicende come quelle e sarebbe anzi quanto mai auspicabile che fossero in molti a reagire e, ancor prima, a rendersi consapevoli della gravità di una deriva sempre più evidente. Viceversa – come è stato purtroppo in tante altre situazioni – sta prevalendo un silenzio diffuso e, se alcune voci di denuncia si sono levate, altre hanno invocato la necessità di non drammatizzare. Un esempio: in un recente caso torinese, vignette di ebrei ricavate dalla più vieta propaganda antisemita sono state riprese per corroborare un post sulla concentrazione in poche mani di molti giornali italiani. Ebbene quella forma di degradazione della discussione pubblica è stata derubricata a «svista», a «disattenzione», grave certo, ma non tale da dover essere sopravvalutata. In realtà anche solo un’occhiata a quelle immagini avrebbe dovuto far sobbalzare chiunque. E se questo non è avvenuto è un segno preoccupante di come, nella cultura visiva soprattutto dei più giovani – ma non solo -, certi rimandi, sinora quasi automatici, a un odio antico ben radicato nella nostra storia si stiano facendo sempre più evanescenti e meno pregni di significato. E’ un fenomeno che può non stupire vista la distanza di tempo sempre maggiore dalle tragedie più dolorose del `900, ma che non per questo suscita minore preoccupazione. Un fenomeno che, proprio perché in crescita costante, è giusto contrastare riproponendo in tutti i luoghi possibili, a scuola e fuori dalla scuola, occasioni di informazione, riflessione e dibattito sugli abissi cui hanno condotto e possono condurre certi stereotipi carichi d’odio. Ma a preoccupare ancora di più è un altro risvolto, più sottile – quanto meno per ora -, di quello che sta accadendo sempre più spesso. Si è parlato di «sviste» come se, trattandosi di presunte leggerezze, si potesse fare affidamento sulla buona fede di chi quelle «sviste» si è lasciato sfuggire e, di conseguenza, si dovesse sì denunciare ma passare subito oltre. Qui però non sono in gioco la buona o la cattiva fede. E magari dalla persona singola responsabile della «svista» ci si può aspettare resipiscenza e pieno ravvedimento. A contare è che, indipendentemente da chi ne è responsabile, di fronte a noi abbiamo un fatto inequivocabile. Uno stereotipo antisemita è stato introdotto a pieno titolo nel linguaggio politico, è diventato un argomento, non più illegittimo e riprovevole, della discussione che ci coinvolge. Non importa che nel caso specifico l’oggetto del ragionamento non fossero gli ebrei. Anzi, la cosa, proprio per questo, è ancora più allarmante. Vuole dire che gli ebrei o, più esattamente, gli stereotipi sugli ebrei possono ridiventare strumento, corpo contundente, da usare come fa più comodo. E che cos’è questo se non una forma indiscutibile di antisemitismo? Che poi quell’atto sia stato commesso con leggerezza e forse con una certa inconsapevolezza, invece di tranquillizzare, suscita uno sconcerto ancora maggiore. Perché dimostra che l’antisemitismo può insinuarsi, può inquinare i nostri rapporti, in forma, per molti, quasi impercettibile. E a poco a poco può conquistare uno spazio crescente grazie alla diffusa tendenza a sdrammatizzare, e soprattutto all’incapacità di cogliere la sostanza del problema. Che cioè l’antisemitismo fa degli ebrei non solo le vittime della propria violenza verbale e fisica, ma li rende anche strumento per altri scopi, che con loro non hanno nulla a che fare e che mutano volta per volta: scaricare su qualcun altro le frustrazioni dei più sfortunati, creare compattezza nel corpo sociale, fare dell’odio una fiamma per scaldare i cuori, deviare su un finto bersaglio la rabbia contro il potere costituito e tanto altro. Ed è a tutto questo – oltre che alle tragedie del passato – che bisogna guardare, che tutti – ebrei e non ebrei – dobbiamo guardare, con grande attenzione. Perché sono i vizi di forma della nostra società di oggi ad alimentare le fonti, attualissime, di una nuova e possibile brutalità insensata. (Se ne discute oggi, alle 21 sul canale Facebook e YouTube dell’Istorato nel convegno: «L’antisemitismo ritorna: cosa fare?» con, oltre Levi, Massimo Gianni, direttore La Stampa, Paolo Borgna, giurista e Milena Santerini, Università Cattolica)