25 Maggio 2014

Daniele Menozzi, Giudaica perfidia, Il Mulino

Fonte:

Il Sole24Ore

Autore:

Sergio Luzzatto

La radice dell’antisemitismo

Per secoli il venerdì santo si pregava per i «perfidi» ebrei. La parola indicava gli infedeli, ma fece comodo l’ambiguità

Germania, agosto 1935. Entro l’idilliaco paesaggio alto-danubiano di Beuron, nel Baden, un oscuro professore di teologia sta profittando delle vacanze estive per studiare nella ricca biblioteca della locale abbazia benedettina. Erik Peterson (questo il nome del teologo) si era recentemente convertito dall’evangelismo al cattolicesimo e si era trasferito a Roma, dove tuttavia faticava a mantenere la famiglia. Per arrotondare il bilancio, proprio alla biblioteca dei benedettini tedeschi il professore esperto di patristica aveva accettato di vendere una parte dei suoi libri. E adesso – mentre il Reich hitleriano si prepara a promulgare le leggi antisemite di Norimberga – Peterson sta studiando un tema altrettanto erudito che attuale: il tema della «giudaica perfidia» nella liturgia cristiana del Venerdì Santo.

Da più di mille anni il programma liturgico della settimana pasquale comprendeva l’orazione Pro perfidis Judaeis. E da almeno cento anni la stigmatizzazione cristiana del popolo ebraico si era caricata, oltreché dell’antica sua connotazione teologica (il popolo ebraico come popolo eretico, perché incapace di riconoscere l’avvento del Messia), di moderne connotazioni morali, politiche, sociali: il popolo ebraico come popolo pericoloso, perché corrotto dal vile denaro e impaziente di dominio mondiale. Di contro a una deriva antisemita che precisamente nella Germania del Terzo Reich si va rivelando esplosiva, Erik Peterson non può maneggiare altro che le piccole armi della filologia storica per cercare, in qualche modo, di evitare l’irreparabile.

Da quella stessa abbazia benedettina di Beuron era partita verso il Vaticano, due anni prima, una forte lettera di denuncia dell’antisemitismo nazista. L’aveva scritta un’insegnante tedesca coetanea di Peterson che dall’ebraismo si era convertita al cattolicesimo, ma che non per questo sarebbe stata risparmiata dalla Soluzione finale: Edith Stein, futura suora carmelitana e futura santa. Per parte sua, il professor Peterson getta nella biblioteca di Beuron le basi di una ricerca, Perfidia judaica, che pubblicherà sulla rivista «Ephemerides liturgicae» nel 1936 e che finirà per pesare significativamente – ma soltanto dopo la distruzione degli ebrei d’Europa – nella storia della liturgia del Venerdì Santo.

Muovendo da un’ampia raccolta di testi antichi e medievali, Peterson argomentava come l’aggettivo latino perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione di «perfido», mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di «infedele». Con l’orazione Pro perfidis Judaeis i cristiani del Medioevo non avevano inteso accusare gli ebrei di tralignamento morale: avevano inteso sottolinearne, semplicemente, la mancanza di fede (tanto è vero che il termine latino perfidia era stato da loro applicato anche a pagani, eretici, scismatici). Per il Peterson del 1935 si trattava dunque di incoraggiare la Chiesa affinché nei cosiddetti messalini, i libretti diffusi tra i fedeli e contenenti la traduzione dei testi liturgici nelle diverse lingue volgari, non si pregasse più per gli ebrei «perfidi» ma semmai per gli ebrei «increduli».

Italia, agosto 1935. Entro l’idilliaco paesaggio appenninico di Pieve S. Stefano, nell’Aretino, il più celebrato fra gli scrittori cattolici italiani – Giovanni Papini, autore nel 1921, da neo-convertito, della fragorosa Storia di Cristo – congeda il manoscritto di un racconto da pubblicare sulla rivista fiorentina «Il Frontespizio». Racconto intitolato La leggenda del gran rabbino e fondato sul dialogo tra un immaginario gran rabbino della diaspora, Sabbatai ben Shalom, e un altrettanto immaginario papa Celestino VI. Dove il rabbino offre al papa una conversione di massa degli ebrei al cattolicesimo, ma in cambio gli chiede la cancellazione dalla liturgia della Pasqua di qualunque riferimento al popolo ebraico come al popolo deicida. E dove, dietro il rifiuto del papa, il rabbino propone un nuovo, inaccettabile patto: in cambio della riforma del rito pasquale, il versamento alla Santa Sede di tutte le ricchezze accumulate nel mondo dagli ebrei…

Il racconto di Papini era impregnato degli stereotipi antisemiti che già avevano riempito, nel 1921, le pagine del bestseller Storia di Cristo. Né gli anni intercorsi dal momento della conversione né i drammatici effetti dell’avvento di Hitler al potere in Germania avevano placato i furori del neofita. Evidentemente, Papini si riconosceva ancora nella rappresentazione degli ebrei sul Golgota da lui consegnata alla Storia di Cristo: «Guardateli dunque, ancora una volta, quelli che ridono intorno alla croce dove Cristo è morso dai dolori!». «Vedete come protendono i musi annusanti, i colli nodosi, i nasi gobbi e uncinati, gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi. Osservateli quanto sono orridi in quelle pose spontanee d’implacata cainità. Contateli bene che ci son tutti, eguali a quelli che conosciamo, fratelli di quelli che incontriamo ogni giorno sulle nostre strade. Non manca nessuno».

Simultanee nel tempo, antinomiche nello spirito, queste due esperienze intellettuali – la ricerca filologica di Peterson sui testi liturgici, le variazioni letterarie di Papini sulla corruttela giudaica – contengono l’alfa e l’omega della vicenda ricostruita da Daniele Menozzi in un libro pubblicato ora dal Mulino. «Giudaica perfidia» (Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, pagg. 248, 22,00) è il primo tentativo sistematico di rendere conto delle fortune e sfortune del sintagma lungo cinque secoli di storia: dal Cinquecento ai giorni nostri, dalla riforma del messale romano promulgata da Pio V all’indomani del concilio di Trento alle misure di recupero di quello stesso messale emanate da Benedetto XVI nel 2007.

Il libro di Menozzi documenta, per l’appunto, la lunga durata di una polarità nella vicenda storica del cattolicesimo moderno e contemporaneo. Da un lato, i progressi di una sensibilità filosemita riconoscibile in certi ambienti dell’Europa cattolica già alla fine del Settecento, nell’età dei Lumi e della Rivoluzione. Dall’altro lato, la resistenza di una sensibilità antisemita che a tutt’oggi dimora negli ambienti integralisti e che percorre, su Internet, le autostrade digitali dell’odio.

Il seme gettato da Erik Peterson a partire dalle sue ricerche nella biblioteca benedettina di Beuron fu raccolto dalla Chiesa soltanto dopo la tragedia della Shoah. Nel 1948, un vecchio amico di Peterson che riusciva ascoltato nei Palazzi Apostolici – Jacques Maritain, ambasciatore francese presso la Santa Sede – trasmise il saggio pubblicato dal teologo tedesco nel 1936 al sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, richiamandola sua attenzione sul «vero senso della parola perfidus nella liturgia». E fu anche così che nel corso stesso del ’48 Pio XII si risolse ad accogliere una delibera della Congregazione dei Riti secondo cui «non si disapprovava» la traduzione di perfidus come «infedele». il che schiuse la via alle decisioni del successore di Pio XII sul trono petrino, Giovanni XXIII. Fin dal primo suo Venerdì Santo quale pontefice, 1127 marzo 1959, papa Roncalli ripulì la liturgia pasquale sia dall’aggettivo «perfidi» che dal sostantivo «perfidia». Dopodiché, la riforma ufficiale del messale latino venne formalmente sancita nel 1962.

Ma anche la pianta annaffiata dalla sensibilità di cattolici come Papini avrebbe trovato il modo di restare in vita nel secondo Novecento, e fin dentro il terzo millennio. Ad esempio presso i seguaci dell’arcivescovo tradizionalista francese Marcel Lefebvre, per dialogare con i quali papa Ratzinger ha compiuto il gesto, nel 2007, di riaprire le porte della Chiesa al messale tridentino di Pio V: sia pure in una versione depurata, senza più traccia di accuse esplicite contro i «perfidi giudei».