11 Dicembre 2020

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore della Fondazione CDEC, recensisce il saggio di Emanuele D’Antonio “Il Sangue di Giuditta. Antisemitismo e voci ebraiche nell’Italia di metà Ottocento” edito da Carocci

Fonte:

Moked.it

Autore:

Gadi Luzzatto Voghera

Omicidio rituale

L’Ottocento è stato un secolo affascinante. Gli storici lo considerano di transizione (ma quale periodo non lo è?). Chi lo legge come lungo tramonto dell’epoca dell’ancien régime, chi come esito delle novità rivoluzionarie, era di avanzamenti sociali e scientifici decisivi per introdurci nella modernità. In quegli anni accadevano episodi che oggi giudicheremmo forse stravaganti, ma che erano il segnale della profondità degli stravolgimenti in atto. Fra essi possiamo annoverare anche l’ultimo caso di “accusa del sangue” registrato in Italia, e più precisamente a Badia Polesine, nei pressi di Rovigo, nel 1855. Vi dedica oggi un meticoloso e documentato studio lo storico friulano Emanuele D’Antonio (Il sangue di Giuditta. Antisemitismo e voci ebraiche nell’Italia di metà Ottocento, Carocci editore). Il fatto è che nel nostro Paese e un po’ in tutta Europa era ancora assai diffusa la credenza popolare – sapientemente fomentata ove necessario da diversi attori politici – che gli ebrei avessero fra le loro usanze tradizionali quella di utilizzare sangue di cristiani per i riti religiosi. L’accusa di vampirismo, che era degenerata nella cruenta distruzione di intere comunità ebraiche nel tardo medioevo, era stata riesumata sulla stampa internazionale dal caso esploso a Damasco nel 1840, che aveva provocato anche in quel caso violenze e massacri sulla base di accuse risultate del tutto prive di fondamento. L’opinione pubblica – un’entità che si andava formando proprio in quei decenni a seguito dello sviluppo dell’attività giornalistica – era disposta a credere a queste fandonie. Oggi si direbbero fake news, ma la sostanza è la medesima. Accadde quindi che una giovine polesana per coprire chissà quali avventure che le avevano provocato delle ferite decise di accusare un ebreo del luogo, Caliman Ravenna, di aver tentato tramite salassi di attentare al suo liquido vitale. Un’accusa grave, che spinse le autorità austriache che governavano all’epoca il territorio veneto ad arrestare l’accusato e a istruire un processo. Fu anche l’occasione per le comunità ebraiche impegnate nel turbinoso processo di emancipazione per confrontarsi con le rinnovate accuse antisemite e attivare una risposta politica e culturale che avesse effetto nella sfera pubblica. A ben vedere si tratta di uno snodo cruciale, nel quale si intrecciano elementi antichi (l’accusa del sangue) con dinamiche moderne. Il lavoro di Emanuele D’Antonio indaga con prosa avvincente e con dovizia di documentazione l’episodio e il conseguente processo, allargando lo sguardo alla più generale dinamica – piuttosto contemporanea – di uso pubblico dell’antisemitismo. Se la vicenda in sé si riduce in fin dei conti alla cronaca di un banale contrasto d’affari degenerato in calunnia religiosa, emerge tuttavia netta la prospettiva che interesserà la storia politica del nostro Paese e dell’intera Europa nei quasi due secoli successivi. L’abuso del pregiudizio come strumento utile ad innescare azioni politiche è oggi all’ordine del giorno, e coinvolge anche – per quanto anacronistico possa sembrare – la stessa accusa del sangue. L’ultimo esempio, si stenta a crederlo, quello del cosiddetto Chef Rubio che in un tweet di pochi giorni fa ha definito #BloodDrinkers (bevitori di sangue) gli ebrei di Israele. La lettura di questo ottimo e documentato saggio di storia potrà funzionare da potente antidoto al riemergere di miti e pregiudizi che ancora sopravvivono fra noi, sottopelle.