20 Settembre 2018

Discorso pronunciato da Noemi Di Segni, Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in occasione della “Cerimonia del ricordo e delle scuse” organizzata dall’ateneo pisano in occasione dell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione delle Leggi razziste da parte del fascismo

Fonte:

Moked.it

Autore:

Noemi Di Segni

La Presidente UCEI: “Un messaggio da tener vivo”

Magnifico Rettore Mancarella, Illustre Presidente Crui Manfredi, Ambasciatore Sachs, Rav Arbib, Autorità, illustri ospiti

Oggi, in questo Ateneo, dinanzi a noi – rappresentanti delle comunità ebraiche in Italia – con emozione e solennità sono state pronunciate parole e riflessioni importanti che abbiamo ascoltato con il cuore e con la mente.

È la parola “legge” con il suo perché sociale, la sua forza vincolante e la sua funzione essenziale di tutela e di regolazione dello spazio relazionale, al centro della nostra riflessione. Com’è potuto accadere nel ’38 che un insieme di provvedimenti voluti e votati da esseri umani – a ciò delegati in rappresentanza del popolo – siano divenuti strumento che normalizzava un antico odio, ordinandone l’attuazione in ogni ambito dell’essere e per ogni avere? Perché dire no alla legge era più giusto che dire sì e sulla base di quale principio più alto invocare giustizia?

Appena ieri è terminata la festività del Kippur, giorno dedicato all’introspezione e all’espiazione, riflettendo sulle nostre colpe e riaffermando propositi per l’anno a venire, riunendosi e recitando preghiere tramandate da secoli di padre in figlio. Abbiamo più volte nel corso della giornata ribadito – sia al singolare che al plurale – sia rivolgendoci a D-o sia al prossimo – che non siamo stati capaci di rispettare la legge, di riconoscere verità, di respingere maldicenza e superbia. I nostri torti nascono dalla inosservanza delle norme (divine) e non dall’obbedienza, ed invero il tema del perdono è complesso, intreccia rigore, libero arbitrio, coerenza, aspettative e speranze di cambiamenti.

La nostra generazione ha ricevuto da chi ha vissuto l’esclusione – allora studenti o docenti – un messaggio ed una missiva che non ha carattere di rivendicazione o restituzione di odio ma di vigilanza e rispetto della libertà e del riconoscimento dell’altro, “altro” che è “noi” società italiana, e di partecipazione alla ricostruzione e allo sviluppo culturale ed accademico del paese e dell’Europa.

Ottant’anni rappresentano per i demografi la durata di un’intera vita e di tre generazioni. Per noi tutti un’eternità. Tanto abbiamo atteso per ascoltare queste parole nel nostro Paese. È vero, anche se fossero state pronunciate il 26 aprile del ‘45 all’indomani della liberazione così anelata, non avrebbero restituito vite spezzate, speranze abbandonate, dignità di cittadinanza sottratta, attestati di appartenenza ad una comunità scientifica negati, orgoglio di essere italiani svaniti.

Anche dopo il varo della costituzione e le leggi abrogative non vi è stata piena reintegrazione e considerazione,- sia per i ricercatori, i docenti che gli studenti di allora – i pochi sopravvissuti o appena in tempo fuggiti, di quanto loro sottratto e negato.

È per me e noi tutti i presenti qui oggi difficile se non impossibile pronunciarsi e rappresentare, anche idealmente, chi ha subito l’umiliante applicazione dei decreti con i quali si sancivano i divieti di frequentare ed insegnare nella scuola e nell’accademia. Chi è presente qui oggi, dei nostri padri, madri, nonni e nonne. Persone che con il loro studio e lavoro concorrevano allo sviluppo della cultura e della scienza in Italia, credendo che fosse la loro patria. Credendo di avere come colleghi e come interlocutori persone colte e capaci di discernere e di ragionare con la propria mente e con la propria coscienza civile e forse anche religiosa. Così sorprendentemente non fu. Nel trasmettere e nel condividere questo pensiero, noi oggi proviamo fatica ad essere la loro voce e questo segue lo esprimo con riverenza e rispetto del loro ricordo:

Nelle parole da voi pronunciate ricerchiamo la consapevolezza che il chiedere scusa non ha un l’ingenuo fine riparatorio di quanto è svanito e cancellato e di quanto è stato orrendamente vissuto, ma il riconoscimento della distorta ragione, dell’indomita acquiescenza, della penetrante indifferenza, dell’aggravante che pesa sulla comunità dei dotti e degli scienziati per aver ideato quel manifesto e sottoscritte quelle idee, assieme ad una l’assunzione di responsabilità per il futuro e per le generazioni future di accademici e scienziati. Affinché non accada mai più che in un ateneo, centro di sapere, di innovazione e ricerca, luogo di formazione di cultura e di scienza, si partecipi attivamente, o passivamente o con il subdolo boicottaggio, a scrivere, insegnare, propagandare odio, contro gli ebrei, contro lo Stato di Israele, le sue istituzioni e comunità scientifiche e culturali, contro chi è considerato Altro da sé. E ribadiamo ancora una volta che la ferita e le conseguenze devastanti non furono solo quelle per i singoli che ne erano i destinatari, ma l’intero Paese, gli Atenei stessi, la scienza e la cultura ad essere precipitate in un medioevo e povertà di valori.

E saremmo miopi e irresponsabili se, anche in questa sede e in questa particolare giornata, non denunciassimo le parole di odio, le violenze verbali e fisiche rivolte contro individui che diventano collettività, ossia pregiudizio, che ogni giorno di più sentiamo pronunciate e difese anche nello spazio pubblico, la distorsione mediatica che ripetuta e propagata genera nemici, e il recepimento di ogni falso come assoluta verità. Segnali inquietanti e oserei dire angoscianti – perché generano incertezza e che temiamo accostare a quella passata, elusa e sottovalutata.

Questo oggi accade e noi come voi non possiamo restare inerti. E’ l’Italia con le sue istituzioni – a partire da quelle preposte all’educazione e allo sviluppo culturale, assieme a chi è chiamato ad assicurare giustizia, ordine, legalità e costituzionalità dell’agire collettivo e individuale, a dover difendere quanto faticosamente ricostruito e definito come quadro normativo in Italia e in Europa nel dopoguerra, rafforzando, e non svilendo, i principi di solidarietà e di uguaglianza tra le genti. La pace e la convivenza non sono vessilli e proclamazioni di intenti ma un impegno quotidiano che richiede di attraversare confini e di abbandonare paure, per potersi radicare come cultura di vita.

L’appello a voi rivolto è di accogliere e condividere anche in seno al mondo universitario, nelle prassi e regolamenti interni, la definizione operativa di antisemitismo che è stata elaborata in seno all’International Holocoust Remebrance Alliance (IHRA), adottata dal Consiglio d’Europea e dal Parlamento europeo con invito agli Stati membri di recepirla e di attivarsi nella lotta contro ogni forma di antisemitismo. La discriminazione come attacco ai valori democratici non è un problema – o non è solo un problema – di chi le subisce ma anche ed in particolare da chi la esercita.

È importante oggi non solo studiare la storia, e saper dire a voce alta – questa è verità – questo è accaduto a cittadini italiani – questo è successo nel nostro Paese, questi furono i comportamenti dell’accademia e della comunità degli scienziati – ma anche sapersi porre rispetto agli eventi passati con la propria coscienza e saper trasmettere una ferma convinzione a chi tentenna, a chi desidera essere parte dell’accademia italiana. È importante oggi tradurre la vostra solenne dichiarazione in fatti – in un percorso che guarda al futuro attivando corsi e studi sulla cultura ebraica. Cultura e popolo che sono vivi e presenti. Questo è il senso di quanto oggi avviene qui a Pisa, con l’odierna cerimonia e con le iniziative programmate in queste settimane che non hanno precedenti nella storia di questo paese e delle sue istituzioni educative. L’auspicio è che queste iniziative, così come nuovi corsi, formazione specialistica e studi dedicati vedano la più ampia partecipazione ed introiezione, traducendosi in esempio e cultura del convivere.