15 Novembre 2016

Dare lezioni sulla bontà del martirio in nome della jihad, per la Cassazione, non deve essere considerato come reato di terrorismo internazionale di matrice islamica

Fonte:

La Stampa

Autore:

Federico Capurso

La Cassazione: non è reato esaltare il martirio jihadista

Le motivazioni sull’assoluzione di quattro presunti terroristi ad Andria

ROMA Dare lezioni sulla bontà del martirio in nome della jihad, per la Cassazione, non deve essere considerato come reato di terrorismo internazionale di matrice islamica. La decisione, destinata a far discutere, è espressa nelle motivazioni relative alla sentenza di assoluzione per quattro presunti jihadisti della moschea di Andria, in Puglia, pubblicate nel giorno in cui viene data notizia dell’arresto di Abu Nassim, il presunto reclutatore dell’Isis tra il Nord Africa e l’Italia. Gli imam e i loro seguaci che – spiegano i giudici dell’Alta corte – intendessero intraprendere un’attività di proselitismo «finalizzata a indurre una generica disponibilità a unirsi ai combattenti per la causa islamica e a immolarsi per la stessa», non compiono reato di terrorismo se la «formazione teorica» degli aspiranti martiri non è affiancata anche «dall’addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento». L’indottrinamento, secondo i supremi giudici, «può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito». Per questo, chi si dedicasse «solo al proselitismo jihadista» non rischierebbe una condanna ma «misure di prevenzione come l’espulsione». Non è la prima volta che la Cassazione è chiamata ad esprimersi in materia di terrorismo di matrice islamica. Già nel 2015, in seguito all’arresto di un ragazzo albanese accusato di essere un reclutatore dell’Isis, i togati avevano dovuto fare chiarezza sul significato del termine «arruolamento» in campo terroristico. II tribunale di Brescia in assenza di prove sulla sua adesione all’Isis, aveva optato per il semplice «proselitismo» ma la Cassazione decise che «il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo non implica né presuppone l’esistenza di un regolare esercito». Piuttosto, il termine «arruolamento è equiparabile alla nozione di ingaggio, intesa come raggiungimento di un “serio accordo” tra soggetto che propone e il soggetto che aderisce». La discriminante tra «proselitismo» e «reclutamento» è fondamentale: nel primo caso si rischia l’espulsione, nel secondo il carcere. Conseguenze sulle quali è intervenuto anche «l’International center for the study of radicalisation and political violence» con la pubblicazione di uno studio. II think tank londinese sostiene che il 27% degli jihadisti presi in esame è stato radicalizzato in carcere, mentre il 57% era stato in prigione prima di avvicinarsi ad ambienti radicalizzati. Ed è qui, in prigione – sostiene lo studio britannico -, che negli ultimi due anni lo Stato Islamico ha concentrato i maggiori sforzi per reclutare nuovi adepti