24 Marzo 2016

Commento di Paolo Mieli sul paragone tra islamismo e fascismo

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Palo Mieli

Stiamo attenti ai paragoni sbagliati sullo stato islamico

Nelle ore successive agli attentati di Bruxelles è risuonato il consueto anatema: gli uomini del Califfato sono dei fascisti e li sconfiggeremo come settant’anni fa facemmo con i loro predecessori in camicia nera. Parole del genere sono state pronunciate, con le migliori intenzioni, anche dal nostro presidente del Consiglio. Che non è stato certo il primo. A dicembre il laburista Hilary Benn, ministro degli Esteri del gabinetto ombra britannico (nonché figlio di Tony Benn a suo tempo leader dell’estrema sinistra inglese) sorprese la Camera dei Comuni sostenendo che quelli dell’Isis sono uguali ai fascisti e perciò meritavano i bombardamenti decisi dal governo Cameron. Il capo del suo partito, Jeremy Corbyn, aveva chiesto che si votasse no a quell’azione militare, ma Benn riuscì a trascinare dalla sua, a favore del sì, molti parlamentari del Labour. Quindici giorni fa, il segretario di Stato americano John Kerry non ha parlato esplicitamente di fascismo ma ha accusato di genocidio gli uomini del Califfato e ha sposato la risoluzione del repubblicano del Nebraska Jeff Fortenberry che contro i jihadisti ipotizzava addirittura azioni sul terreno. Nulla da eccepire su questi abbracci tra opposti in chiave anti Daesh. Anzi. Ma l’evocazione del fascismo può indurre a commettere errori. In che senso? L’assimilazione di Al Baghdadi a Hitler può essere fatta risalire, nella discussione attuale post 11 settembre, a Christopher Hitchens che, riferendosi a Bin Laden e ai musulmani radicali, inventò il termine «islamofascismo». Fu più sottile Paul Berman, secondo il quale il movimento islamista sarebbe un ibrido: il califfato islamico, osservò, affianca una lettura apocalittica dell’Islam con una burocrazia da stato di polizia che ha poco a che fare con le tradizioni ottomane del lontano passato, ma deve molto al partito Baath, basato sul modello sovietico; il concetto islamista della cospirazione demoniaca degli ebrei invece è un’eredità nazista. Insomma ci troveremmo al cospetto di un’unione infernale tra il peggio della storia d’Europa e di quella del Medio Oriente. Niall Ferguson ha contestato queste tesi che riconducono l’oltranzismo musulmano alla categoria del fascismo. E così anche Ian Buruma, prendendo di mira «la nostra scarsa conoscenza della storia (limitata quasi esclusivamente al nazismo e alla Seconda guerra mondiale)» che ci impedirebbe, nei fatti, di scorgere altre analogie storiche destinate, forse, a rivelarsi più istruttive. La situazione attuale, secondo Buruma, non andrebbe assimilata alla Seconda guerra mondiale bensì alla Guerra dei trent’anni che tra il 1618 e il 1648 devastò l’Europa centrale. Una guerra considerata ancora oggi di natura religiosa, dal momento che vedeva opposti tra loro cattolici e protestanti, anche se i soldati mercenari (sia protestanti che cattolici) cambiavano fronte ogni volta che faceva loro comodo, i principi protestanti tedeschi erano sostenuti dal Vaticano e la Francia cattolica appoggiava la Repubblica olandese (protestante). Ed è questo il punto. La Guerra dei trent’anni fu in realtà una lotta per l’egemonia tra la monarchia dei Borbone e quella degli Asburgo. Allo stesso modo — e lo si è definitivamente capito dopo quel che è seguito all’impiccagione dell’imam sciita Nimr al Nimr e altre quarantasei persone il primo gennaio scorso — la lotta tra Riad e Teheran, che fa da sfondo a tutti i conflitti del Medio Oriente. Una contesa che non è di natura solo religiosa, ma politica. Anche se lo scontro fondamentale, le cui origini risalgono a mille e trecentocinquant’anni fa, è quello tra sunniti e sciiti. Non si tratta, come potrebbe apparire, di dispute terminologiche. L’evocazione del fascismo e del nazismo rischia di indurci a qualche eccesso di semplificazione. Se davvero fossimo al cospetto di eredi di Hitler e Mussolini, basterebbe non ripetere l’errore compiuto nel settembre 1938 a Monaco allorché il primo ministro inglese Neville Chamberlain riuscì a far passare una politica di appeasement con la Germania nazista, sarebbe sufficiente resistere ad attentati comparabili alle bombe su Londra del 1940 e prima o poi schierare «sul terreno» i nostri eserciti. Così ne potremmo venire a capo come accadde nel giugno del 1944 quando le truppe alleate sbarcarono in Normandia e nel giro di due mesi liberarono Parigi. Si tratta solo di evitare qualche clamoroso errore, prepararci e attendere il momento propizio. Se invece lo scenario, per grandi linee, assomiglia di più a quello della prima metà del Seicento, dovremmo considerare più efficace il saper attendere, svolgere azioni mirate ad ottenere risultati provvisori, inviare contingenti per poi ritirarli prontamente (come ha fatto Putin in Siria) e soprattutto elaborare una politica delle alleanze di lunga durata che regga all’impatto emotivo di scelte riprovevoli o raccapriccianti dei partner locali che abbiamo scelto. I soggetti a fianco dei quali dovremmo combattere contro il califfato e affrontare i giganteschi problemi connessi a questa guerra (come i flussi migratori) sono quello che sappiamo: i due governi libici, la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, il regime di Damasco, quello di Bagdad, l’Iran, per non dire di quelli che hanno minore dignità statuale. Alcuni sono più affidabili, altri meno, altri ancora non lo sono per niente. Prepariamoci. E facciamo in modo di poter delineare una strategia a lungo termine che sia chiara per noi ma soprattutto per i nostri interlocutori. E che sia destinata a reggere nel tempo. Di anni, dall’11 settembre, ne sono trascorsi già quindici. E se l’attuale situazione non è molto migliore di quella che era nel 2001 (anzi, è andata via via peggiorando) forse sarebbe il caso di liberarci delle categorie che fissammo all’indomani del abbattimento delle Torri Gemelle e che ne definissimo di nuove. Adatte ad affrontare un conflitto che non sarà breve.