25 Ottobre 2015

Cinquant’anni fa, l’allora arcivescovo di Trento emanava un decreto con il quale si stabiliva l’infondatezza storica e giuridica delle accuse di «infanticidio rituale» mosse alla piccola comunità ebraica residente in città

Fonte:

Corriere del Trentino

Autore:

Renzo Fracalossi

Simonino, irripetibile lezione di tolleranza

In un’epoca che divora la memoria con la velocità della tecnica, forse non molti rammentano cosa accadde a Trento il 28 ottobre di cinquant’anni fa. In quella data, l’allora arcivescovo, Alessandro Maria Gottardi, emanava un suo decreto con il quale si stabiliva l’infondatezza storica e giuridica delle accuse di «infanticidio rituale» mosse alla piccola comunità ebraica residente in città, circa la morte del piccolo Simone, figlio di Andrea il Conciapelli, avvenuta cinquecento anni prima. Verso la fine del XIV secolo, una comunità ebraica proveniente da Norimberga si stabiliva a Trento, dove avviava attività commerciali, di prestito a interesse e di medicina curativa. Composta da una trentina di persone, nella quasi totalità da ebrei di lingua tedesca tranne il prestatore che proveniva da Verona, essa si inserì in breve nel tessuto sociale urbano, stringendo crescenti e positivi rapporti di tollerante convivenza con i cittadini di Trento, al punto che, quando si levarono le prime accuse, anche a seguito della predicazione fortemente antisemita di Bernardino da Feltre, ben pochi vi credettero. L’accusa di omicidio rituale — e segnatamente di infanticidio — non era nuova. Nell’ Evo medio, essa si allargò un po’ ovunque in Europa. Il primo caso si ebbe a Norwich, in Inghilterra, ancora nel 1144. Poi a Würzburg tre anni dopo; quindi a Blois nel 1171. Negli anni seguenti a Röttingen, Berna, Bruxelles e infine, nel 1475, a Trento. Forse qui però, per la prima volta, la reazione antisemita non si limitò solo a forme immediate e inconsulte di ira popolare, ma si sviluppò attraverso una programmazione definita e una persecuzione capace di durare nel tempo. Fu proprio tale carattere particolare a rendere la vicenda tridentina unica nel panorama della tragedia dell’antisemitismo Ci vollero quasi cinque secoli prima che una giustizia tardiva potesse affermarsi, grazie soprattutto ad alcune straordinarie figure di studiosi e intellettuali: il Padre Willhelm Eckert, monsignor Iginio Rogger e don Dante Clauser, per proseguire poi con gli eccezionali approfondimenti storici e giuridici di Gemma Volli e Diego Quaglioni, ai quali la verità sul Simonino dovette veramente molto. Sulla scorta di tali ricerche e dei documenti progressivamente venuti alla luce, fu però la volontà ferma dell’arcivescovo Gottardi a portare a compimento il processo di decanonizzazione del culto del Beato Simone, che venne così tolto dal «Martirologio dei Santi» quindi dalla devozione popolare. Si trattò così di testimoniare tangibilmente l’apertura della Chiesa tridentina, la sua voglia di verità e la capacità di fare ammenda, in un tempo in cui l’infallibilità degli uomini di Dio sembrava essere fuor di dubbio. Ci volle infatti un coraggio straordinario, supportato da una base intellettuale di grande spessore, per spingere nella direzione di una revisione critica della storia e della fede cattolica, secondo lo spirito di innovazione e di modernità che spirava dalla dichiarazione «Nostra Aetate» e che, proprio il 28 ottobre, il Concilio Vaticano II sottoscriveva a Roma, aprendo finalmente — dopo secoli di oscura chiusura — un dialogo nuovo e nutrito di rispetto con le altre fedi e culture religiose, a cominciare proprio dall’Ebraismo e dall’Islam. Oggi, a cinquant’anni di distanza, vien da chiedersi cosa rimane di quella irripetibile lezione di tolleranza. Davanti alla ripresa dei fanatismi di ogni colore e provenienza; di fronte agli egoismi senza prospettiva; nella facile crescita delle culture del rifiuto e del pregiudizio, pare che anche l’indicazione di quel gesto forte stia cadendo nell’oblio delle dimenticanze, sopraffatta dalle comode demagogie a buon mercato, capaci solo di annegare il nostro vivere dentro una nuova e manichea onda d’odio. Immaginare di non incontrare mai l’«Altro», pensare di poter vivere dentro un continuo soliloquio, affermare solo il sordo borbottio delle proprie ragioni, significa rifiutare la profonda suggestione morale del dialogo che proprio in quelle scelte di coscienza trova un suo fondamento e una sua didattica universale e senza tempo.