13 Marzo 2019

Bernard-Henry Lévy commenta i recenti episodi di antisemitismo che coinvolgono alcuni Democratici statunitensi

Fonte:

La Stampa

Autore:

Bernard-Henry Lévy

Il caso Ilhan Omar, anche in America la sinistra radicale sposa l’antisemitismo

lhan Omar è un’esponente di quei giovani democratici che, grazie alle elezioni di medio termine dello scorso novembre, sono entrati a far parte del Congresso degli Stati Uniti. E nera. Di origine somala. È musulmana e indossa l’hijab. Ed è, da qualche giorno, all’onore delle cronache per aver fatto osservazioni scandalose e offensive su Israele e la lobby filoisraeliana negli Stati Uniti. Già nel 2012, agli albori della sua carriera politica, aveva fatto notizia dichiarando che Israele aveva «ipnotizzato il mondo» e che lei pregava Allah di «svegliare il popolo» e aiutarlo a «vedere chiaramente le sue atrocità». Poi, alcuni anni dopo, in risposta a un avversario che aveva rispolverato quella dichiarazione ed era rimasto spiacevolmente colpito dal fatto che lei, al Congresso dello Stato del Minnesota, si fosse unita ai sostenitori del boicottaggio di Israele, aveva obiettato che «attirare l’attenzione sull’apartheid israeliano» non faceva di lei una persona che «odiava gli ebrei». Ma ecco che stavolta la giovane rappresentante si spinge ancora oltre e dice, in sostanza, che i suoi nuovi colleghi che sostengono Israele non lo fanno per convinzione o per amore della democrazia, o in virtù di un’analisi approfondita degli interessi del Paese, ma grazie a «Benjamin», ovvero al biglietto da 100 dollari (che effigia Benjamin Franklin n.d.t.), insomma, perché sono stati corrotti dalle potenti lobby filosioniste. Quest’ affermazione ha l’effetto dirompente di una bomba. Ed è condannata dalla maggioranza degli esponenti repubblicani e dei democratici, è evidente che l’ostilità verso lo Stato ebraico opera come un magnete in grado di attrarre, riciclare e riattivare i più banali pregiudizi antisemiti: doppia fedeltà, amore per il lucro, propensione al tradimento. Ma maggioranza non significa unanimità. E almeno tanto importante quanto il clamore è lo strano dibattito a cui questo caso ha dato luogo. Sorvolo sulla reazione di vecchi antisemiti come David Duke, l’ex «Grande Mago» del Ku Klux Klan, che è arrivato in soccorso della giovane donna e, in risposta a Donald Trump che ne chiede le dimissioni, si congratula con lei per avere «denunciato le bustarelle israeliane ricevute dai membri del Congresso». Ma non posso sorvolare sull’immediata solidarietà di Alexandria Ocasio-Cortez, democratica, eletta a New York e astro nascente del partito, che si è sorpresa per le critiche «offensive» di cui la sua collega era oggetto e ha reclamato lo stesso «livello di reazione quando altri eletti rilasciano dichiarazioni sui latinos o su altre comunità». Né su quella dell’attivista Linda Sarsour, icona della Women’s March e, peraltro, sostenitrice della sharia (non ha forse detto, in un tweet poi cancellato, che Ayaan Hirsi Ali meritava, in quanto «cattiva» musulmana, che le fosse «strappata la vagina»?) che dice di «appoggiare la rappresentante Ilhan Omar» e condannare l’atteggiamento delle «femministe bianche» che, mentre le chiedono di scusarsi, fanno il «lavoro sporco» per gli «uomini di potere bianchi». Né su quella della presidente democratica della Camera, Nancy Pelosi, che, dopo un tête-à-téte con Omar, che ha convinto, in effetti, a chiedere scusa, tenta di discolparla con una dichiarazione che raggiunge vertici mai visti di condiscendenza e/o relativismo affermando che la giovane americano-somala «non misura il peso delle sue stesse parole» e ha una «diversa esperienza» dell’uso della lingua. Né, a maggior ragione posso sorvolare sulle dichiarazioni di James Clyburn, rappresentante della Carolina del Sud, che spiega questo passaggio all’antisemitismo con il suo doloroso passato di rifugiata in Kenya; dicendo che, invece di prendersela con lei, i suoi colleghi dovrebbero «rispettare e onorare» la vittima che è stata; e concludendo che lei ha una relazione con la sofferenza «più personale» rispetto ai figli delle vittime della Shoah. Per non dire di Debbie Dingell, rappresentante del Michigan e democratica della vecchia scuola, che ha esortato «entrambe le parti» (sì, «entrambe le parti»! Le parole di Donald Trump dopo Charlottesville!) a non diffondere odio, razzismo e islamofobia. E cosa dobbiamo pensare del testo stesso della risoluzione infine adottata dal Congresso, che, dopo accesi dibattiti in cui la condizione di Omar, donna nera e musulmana sembrava pesare almeno tanto quanto le critiche a lei rivolte, condanna sì l’antisemitismo – ma 1. senza nominarlo espressamente e 2. avendo cura di condannare anche, nello stesso afflato di tartuferia benpensante e confusione politica, la «discriminazione anti-musulmana e l’intolleranza contro ogni minoranza». La sequenza è istruttiva in più di un senso. Dimostra che il dibattito sulla metamorfosi dell’antisemitismo, rianimato dall’antisionismo, non è una specialità francese. Illustra la deriva di una parte della giovane guardia democratica, che ragiona come i laburisti di Jeremy Corbyn ed è pochissimo incline a denunciare il preoccupante ritorno dell’antisemitismo di sinistra. E rivela come gli Stati Uniti, che con Trump avevano già la destra più deplorevole della loro storia, stiano assistendo alla nascita, speculare, di una sinistra allo stesso tempo stupida, malevola, falsamente anti-razzista e antifascista – consegnata nel peggiore dei casi all’antisemitismo e, nella migliore delle ipotesi, a quella lebbra dell’intelligenza che è la credenza nell’inevitabile competizione tra vittime e ricordi. Che le due cose siano collegate, che la corbinizzazione dei democratici sia un effetto indotto della trumpizzazione dei repubblicani è tutt’altro che rassicurante. Per coloro che speravano di veder cambiare il Paese nel giro di due anni è lo spirito di Martin Luther King e Barack Obama a essere assassinato – ed è terribile.

Traduzione di Carla Reschia

Photo Credits: antisemitism.org.il