4 Marzo 2017

Bernard-Henri Lévy critica il presidente Usa per non avere condannato chiaramente i recenti atti di antisemitismo

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Bernard-Henri Lévy

L’antisemitismo in America

Le parole che Trump non usa

Non immaginavo d’essere così vicino alla realtà quando, tre settimane fa, spiegavo che gli ebrei degli Stati Uniti avevano tutto da temere dal loro nuovo presidente, compreso il peggio. Da allora, c’è stato l’incredibile lapsus nel discorso del 27 gennaio, il giorno della Memoria in «ricordo dell’Olocausto». No, lapsus non è la parola giusta. Perché nel frattempo abbiamo appreso (Politico, 2 febbraio) che una bozza di quel discorso era stata preparata dal Dipartimento di Stato; che in essa figurava, come ogni anno e come per ogni presidente, la menzione dei «sei milioni di ebrei» sterminati dai nazisti. E dunque intenzionalmente, sapendo quel che facevano e per quale motivo, che gli uomini della Casa Bianca hanno scelto di cancellare quella menzione. In altri termini, c’era la deliberata volontà di far sprofondare gli ebrei vittime del genocidio nella generica zona grigia dei «massacri» e dei «crimini» senza volto e senza nome. Si è trattato effettivamente di un atto negazionista che rappresenta uno dei gesti costitutivi del nuovo antisemitismo. È terribile, ma è così. Qualche giorno dopo, c’è stata la strana conferenza stampa di Donald Trump e Benjamin Netanyahu, all’inizio della visita di quest’ultimo a Washington. Un giornalista israeliano si alza. Interroga il presidente sul preoccupante aumento di atti antisemiti negli Stati Uniti. Invece di rispondergli, invece di cogliere l’occasione per pronunciare la frase chiara e inappellabile che ci si aspetta da qualsiasi presidente americano degno di questo nome, invece di condannare con forza il ritorno dell’odio più antico su una delle rare terre al mondo in cui sembrava fosse contenuto, Donald Trump parla, come al solito, di se stesso; con la stessa compulsione ossessiva e puerile che aveva dimostrato il giorno in cui aveva visitato, all’indomani della propria investitura, la sede della Cia, torna a parlare della vittoria dell’8 novembre scorso e della sua rilevanza; e quando infine si ricorda della domanda postagli, osserva con gli occhi vaghi e il tono meccanico che sì, molte «brutte cose» accadono nel Paese, molti «crimini» vengono commessi, e che occorre assolutamente «bloccarli»; per poi aggiungere che lui sarà un presidente desideroso di «pace»… Non una parola sulla situazione dei bambini ebrei che vanno a scuola attanagliati dalla paura. Nemmeno l’ombra di un’idea sulla maniera di trattare i miliardi di tweet e retweet che, secondo la Lega antidiffamazione, divulgano, da quando Trump è stato eletto, battute sulle camere a gas, appelli a riaprire «i forni» per gli ebrei di New York e Los Angeles o teorie complottistiche fra le più nauseabonde. Poi c’è stata, ventiquattro ore più tardi, una seconda conferenza stampa in cui un altro giornalista, che stavolta rappresentava un settimanale ebraico americano, si alza, gli pone più o meno la stessa domanda e gli chiede rispettosamente cosa l’Amministrazione conti di fare di fronte al moltiplicarsi di sinagoghe attaccate, di scuole ebraiche minacciate ed evacuate in tutta fretta o di centri comunitari terrorizzati da allarmi alla bomba finora sventati. «Stia zitto — lo interrompe il presidente con bizzarra violenza e che lascia allibiti i giornalisti presenti — stia zitto e si risieda. Lei non ha mai conosciuto, nella sua vita, un uomo meno antisemita di me». Ed ecco che il-meno-antisemita-degli-uomini-e-dunque-dei-presidenti non trova, di nuovo, una sola parola per spiegare come l’America di Martin Luther King, Elie Wiesel e Bill Clinton arginerà l’ondata di antisemitismo senza precedenti dagli anni Trenta che, dopo l’Europa, sta sommergendo il suo Paese. Completiamo il quadro con l’immagine degli oltre venti rabbini arrestati e ammanettati per aver avuto la sfrontatezza di manifestare, vicino alla Trump Tower, contro il Bando anti Islam Aggiungiamo la piccola volgarità che, appena tali questioni vengono affrontate, lo porta a sfoderare l’argomento secondo lui schiacciante che è l’esistenza della figlia, del genero, dei suoi «meravigliosi» nipotini e, come prevedibile, dei suoi «amici ebrei». O ancora, nella vicenda della cancellazione dei nomi ebraici durante la commemorazione della Shoah, l’infamia supplementare degli addetti alla «verità alternativa» del momento, che tentarono di attribuire l’errore a un «sopravvissuto dell’Olocausto». Che il primo ministro di Israele non trovi nulla da ridire su tutto questo, che creda abile o giusto assegnare a quest’uomo attestati di virtù consacrandolo «grande sostenitore del popolo e dello Stato ebraici», e che lo faccia esibendosi con lui in messe in scena dove si esaltano complicità e amicizia, non cambia nulla. Nel migliore dei casi, sarà il lontanissimo erede di Giuseppe che si allea con il faraone per proteggere i suoi. Ma conosciamo la fine della storia: come «sorge sull’Egitto» un nuovo faraone che non «avrà conosciuto Giuseppe» e ridurrà I suoi discendenti in schiavitù, così un nuovo presidente finirà, prima o poi, per sorgere sull’America. Con due ipotesi possibili, dice il Talmud, ugualmente tragiche. O il nuovo venuto è veramente un nuovo faraone e assocerà gli ebrei al predecessore di cui con tanta imprudenza hanno abbracciato la causa e il destino. Oppure è lo stesso; è, dicono esattamente i Saggi, lo stesso che «prende una cattiva strada» e che, in altre parole, cambia casacca: in tal caso, è l’imprevedibile signor Trump a diventare un altro signor Trump, il quale si rivolterà contro quel Paese, Israele, di cui in fondo se ne infischia e che ha tutto da temere, ora e subito, dal suo pragmatismo e dal suo cinismo.

(traduzione di Daniela Maggioni)