23 Aprile 2017

Analisi del Front National, parte seconda

Fonte:

Moked.it

Autore:

Claudio Vercelli

La labile memoria di Marine/2

La questione di dove riposasse la radice della “vera Francia” (Vichy o Londra?), durante l’occupazione tedesca tra il 1940 e il 1944, non ha mai costituito nel tempo una questione di lana caprina, rimandando semmai al problema della legittimazione della Quarta e poi della Quinta Repubblica, i due sistemi di potere succedutisi dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che hanno dato corpo e sostanza alla Francia odierna. Un tema che, tra le righe, ritorna non più di soppiatto, dinanzi alla battaglia sovranista e identitaria che Marine Le Pen si è intestata in questi ultimi dieci anni. Si tratta in realtà di uno quesito politico a tutto tondo, che ha al suo centro la questione di quale sia il fondamento della liceità del potere nei momenti dei grandi travagli e dei mutamenti collettivi. Questione spinosa, tanto più in età di globalizzazione, quando gli Stati nazionali vengono messi con le spalle contro il muro dalle trasformazioni dei mercati e delle relazioni internazionali. Il Front National, all’atto della sua costituzione nel 1972, aveva raccolto tutte le spinte delegittimanti nei confronti del liberalismo francese. A volere dire che l’ordinamento repubblicano e, soprattutto, costituzionale, presenta fondamenta d’argilla. Il rimando era alla famosa linea di successione che dallo spirito controrivoluzionario di quasi due secoli prima portava fino al rifiuto del ’68 francese, inteso come la “marxistizzazione” dello Stato e della società (che De Gaulle si fosse concretamente opposto agli studenti interessava poco o nulla ai neofascisti, avendo ad obiettivo non questi ultimi ma la stessa democrazia d’Oltralpe in quanto tale). Per una “svolta reazionaria”, come si sarebbe definita un tempo una opzione di natura illiberale e autoritaria, necessitava di dotarsi di una credibilità culturale e di una genealogia storica precise. Vichy, ossia l’effimero esperimento collaborazionista del cosiddetto «État français», nella zona del paese non interdetta dall’occupante tedesco, tra il 1940 e il 1944, era stato presentato, dopo la sua decadenza, come uno dei fondamenti del neofascismo postbellico. Di esso, il generale De Gaulle, assegnatosi il ruolo di nume tutelare della continuità della «République française», anche nell’esilio, aveva invece dichiarato l’«illegittimità, la nullità, il non essere esistito». L’ordinanza del 9 agosto 1944, concernente il «ristabilimento della legalità repubblicana sul territorio continentale», promulgata dal Governo provvisorio della Repubblica, annullava tutte le volontà di carattere giuridico (norme, disposizioni, testi regolamentari, leggi “costituzionali”) emesse dai petanisti durante il loro governo. Non si trattava solo di un atto di abrogazione delle precedenti statuizioni ma dell’azzeramento politico, e quindi storico, prima ancora che legale, del quadriennio collaborazionista. I gollisti, e con essi le forze che si riconoscevano nel movimento della «Francia libera», erano considerati invece come i veri ed autentici depositari della Repubblica francese. La quale, come tale, non aveva cessato di esistere, continuando la sua lotta contro l’occupante attraverso la Resistenza e gli organismi istituiti durante gli anni dell’esilio. Pétain e i suoi erano considerati semplicemente degli abusivi. Nei giorni della liberazione, con l’estate e l’autunno del 1944, De Gaulle, allora presidente del Consiglio provvisorio della Repubblica, rifiuta l’idea stessa che qualcosa di perduto vada ora ristabilito, affermando perentoriamente che: «la Repubblica non ha mai cessato d’esistere. La Francia libera, la Francia combattente, il Comitato francese di liberazione nazionale l’hanno incorporata nel loro insieme. Vichy fu e rimane un nulla e un non avvenuto. Io stesso sono il presidente del governo della Repubblica. Perché dovrei proclamarla [se già esiste, n.d.r.]?». Pétain e i suoi erano quindi stati una parentesi occasionale nella storia francese, che andava chiusa molto velocemente, sotterrandone le vestigia e cancellandone, se possibile, il ricordo. Un atteggiamento sprezzante, informato ad una intransigenza il cui triplice obiettivo era quello di assicurare la Francia al novero dei vincitori della guerra, stabilire la supremazia del movimento della «Francia libera» su tutte le forze resistenti (con una particolare attenzione ai comunisti, molto attivi durante gli anni dell’occupazione ma assai poco o nulla proclivi a farsi subordinare dai gollisti) e dichiarare che la “vera autorità”, quella dotata di legittimità, liceità e depositaria della legalità, riposava una volta per sempre nelle mani di De Gaulle. La forzatura era evidente, rispondendo ad un calcolo politico neanche poi troppo sottile e, per buona parte, accettato negli anni successivi alla Liberazione. Ma una tale posizione implicava anche il risparmiare ai francesi medesimi uno sforzo di auto-analisi sulle proprie responsabilità, o comunque sull’acquiescenza, nei confronti dei crimini commessi ai danni dei loro connazionali, a partire proprio dalle persecuzioni e dalle deportazioni degli ebrei. Nel suo insieme, la narrazione che è prevalsa fino agli anni Settanta ha quindi enfatizzato una visione celebrativa, encomiastica di una Resistenza eroica, collettiva, pervasiva contro i tedeschi. Per De Gaulle, per i suoi apologeti e sostenitori come anche per i suoi epigoni, la questione di Vichy era pertanto chiusa. Con essa anche la problematica ramificazione dei circuiti di collaborazione con i tedeschi, fino all’adesione ideologica al loro progetto razziale da parte di non pochi francesi. Oblio, rimozione ma anche un’implicita riconciliazione (dopo un lavacro violento, ossia una durissima resa dei conti con i collaborazionisti) stavano a garanzia del patto politico che era alla base della continuità repubblicana. Non parlare di crimini francesi, se non riferendoli ai “traditori” di Vichy, in fondo sembrava chiudere molti capitoli, altrimenti destinati a pesare nella considerazione di sé della società nazionale. Solo con la lunga presidenza di François Mitterand (due mandati, tra il 1981 e il 1995), abile politico di lungo corso, già a sua volta implicato nelle vicende petaniste, ancorché poi resistente, maturano le condizioni perché il quadro di riferimento muti. Le spinte provenienti dalla società civile, dalla ricerca storica, le richieste sempre più pressanti manifestate dalle associazioni dei sopravvissuti e dei famigliari dei perseguitati, insieme ad un più generale cambio generazionale, generano lo spazio per una revisione collettiva dell’approccio al proprio passato. Mitterand dapprima nega o attenua il fondamento delle richieste, poi, nel 1993, permette l’adozione nel calendario nazionale di una giornata commemorativa dei crimini antisemiti commessi da Vichy. Il passo successivo, due anni dopo, lo si ha con il discorso “revisionista” di Jacques Chirac, successore di Mitterand, quando quest’ultimo riconosce le compromissioni e le corresponsabilità della Francia, parlando di una «faute collective» (una colpa condivisa). Tuttavia, se di Francia si va genericamente parlando, non a tutta ci si riferisce poiché, tempera subito Chirac: «certo, si sono commessi errori, ci sono colpe, c’è una colpa collettiva. Ma c’è anche la Francia, una certa idea della Francia […] generosa, fedele alle sue tradizioni, al suo genio. Questa Francia non è mai stata con Vichy». Un colpo alla botte ma anche uno al cerchio. Se non altro perché sostituisce al «pugno di traditori», al «soldo dell’occupante», qualcosa al medesimo tempo di più ampio ma anche di maggiormente sfumato. Per Chirac, sulla scorta di Mitterand, c’erano stati due modi di essere francesi: quello di coloro che non si erano arresi, non almeno nello spirito, e i corrotti. Archiviato il manicheismo omissivo di De Gaulle, ora è tuttavia giunto il tempo non delle scuse e neanche del perdono ma della «dette imprescriptible» (il debito imprescrittibile). La qual cosa, ancora una volta, ingenera una reazione per la quale lo stesso regime di Vichy assume nella memoria pubblica una fisionomia diversa. Infatti, se le cose stanno nei termini appena evocati, allora non lo si può liquidare come un mero accidente dettato dal caso. Sono quindi gli anni dei timidi e spesso infiniti processi contro alcuni esponenti della pubblica amministrazione francese, come l’ex prefetto di polizia Maurice Papon, condannato poi per crimini contro l’umanità. La stessa figura di Papon rivela, nella sua lunga carriera, il groviglio di contraddizioni che il rapporto con il passato porta con sé: già vicino, durante gli anni Trenta, al Fronte popolare, la coalizione di partiti della sinistra al governo in Francia tra il 1936 e il 1938, poi aderente alla «rivoluzione nazionale» di Pétain, e come tale corresponsabile della deportazione di migliaia di ebrei francesi, con l’approssimarsi della liberazione si approssima agli ambienti della Resistenza. Continua nei decenni successivi la sua brillante carriera di alto funzionario dello Stato francese, mai messo in discussione per la sua compromissione collaborazionista. Prefetto di Parigi, titolato della Legion d’onore, prosegue infine, con gli anni Sessanta e Settanta con la sua attività pubblica, in quanto deputato e poi come ministro del partito gollista. Soltanto con i primi anni Ottanta, attraverso un’inchiesta giornalistica promossa dal periodico «le Canard enchaîné», inizia un lungo iter che, smascherandone le colpe, lo porterà nel 1998 ad essere riconosciuto colpevole dei crimini attribuitigli. Alcuni anni dopo, il Consiglio di Stato francese disporrà che sia la stessa amministrazione pubblica nazionale a doversi fare carico di una parte dei risarcimenti civili dovuti da Papon alle sue vittime. La motivazione è che l’ex prefetto, all’epoca dei fatti, aveva agito in nome dello Stato francese (e quindi non solo delle autorità di Vichy che, peraltro, non controllavano la prefettura di Bordeaux e della Gironda, di cui Papon era segretario generale, il luogo in cui si consumarono le deportazioni imputategli). Nel febbraio del 2009, il Consiglio di Stato ribadisce il concetto con un pronunciamento nel quale di fatto sostiene che l’ordinanza gollista del 1944, ben lontana dal potersi considerare solo una mera dichiarazione di nullità degli atti di Vichy, implica semmai l’assunzione della responsabilità per i crimini connessi alle persecuzioni antisemite sulle spalle dello Stato francese. In altre parole, se di continuità dello Stato si può parlare, identificandola con la Repubblica in esilio a Londra, essa si estende di riflesso anche alla questione delle violenze commesse da chi, non importa se illegittimamente, ne aveva usurpato la rappresentanza. La continuità della Francia implica che la sua rappresentanza politica legittima si faccia quindi carico di ciò che deriva dalla medesima titolarità della persistenza della sovranità legale, anche se in condizioni di oggettiva estromissione dal controllo diretto dei suoi territori, occupati dai nazisti e cogestiti dai collaborazionisti. In altre parole: se i crimini li hanno commessi questi ultimi a risponderne in qualche modo, nei termini di una qualche responsabilità diffusa, deve essere l’intera Francia. Proprio in virtù del conclamato principio di “continuità”, sanzionato dallo stesso De Gaulle. Dunque, l’intera questione evocata da Marine Le Pen (la “vera Francia” non stava con il governo petanista di Vichy), entra dentro questo groviglio di questioni. La piegatura manipolatoria del discorso pubblico, in prossimità di un responso elettorale, precipita quindi su un campo minato. Negli ultimi trenta e più anni il tema delle politiche della memoria in Francia ha dato luogo a conflitti perpetui, puntualmente riacutizzatisi in prossimità delle elezioni. Nell’ultimo decennio, inoltre, una vera e propria inflazione di iniziative dedicate al ricordo del passato, ha investito la società francese. Il neolepenismo deve confrontarsi con questo quadro in evoluzione. Dove il risarcimento morale e civile delle vittime, nel nome di un rinnovato patto repubblicano d’integrazione, tanto più dinanzi alla presenza di un’immigrazione che si sente estranea a questi trascorsi ma è comunque chiamata ad esprimersi nell’agone pubblico, implica che a risponderne siano chiamati non tanti i carnefici di allora, oramai scomparsi, quanto la società di oggi. La quale, ha tutte le ragioni per dichiararsi estranea alle colpe penali, alle condotte individuali di natura criminale, alle collusioni e alle compromissioni laddove queste appartengano a certuni ma non a tanti altri. Non c’è traslazione in tal senso ma, piuttosto, condivisione del senso della responsabilità. Si tratta della medesima questione che si sta ponendo, in termini di nuovo omissivi, nei paesi dell’Est europeo, a partire dalla Polonia e dall’Ungheria. Il riaffermarsi in queste nazioni di concezioni “patriottiche”, se non neonazionaliste, solleva molte domande sul futuro di una memoria europea condivisa. Che potrà ancora essere tale se basata non su improbabili riconciliazioni e, ancora meno, su insostenibili pacificazioni. La linea di continuità che, frettolosamente, Marine Le Pen cerca di identificare con i trascorsi del discorso gollista, ha lo sgradevole sapore, invece, di un anacronismo destinato ad assolvere il presente relativizzando il passato. (2/fine)