11 Maggio 2016

L’Unesco approva una risoluzione promossa da alcuni paesi arabi che definisce i luoghi sacri in Terra di Israele solo nel quadro della tradizione islamica

Fonte:

la Repubblica

Autore:

Alberto Melloni

Polemica sull’Unesco per una risoluzione senza nomi ebraici dei luoghi contesi

Si oppongono Stai Uniti, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Estonia e Lituania. Astenuti 17 paesi tra cui l’Italia. Si schierano a favore 33 Stati, tra cui la Francia

L’Unesco ha approvato a metà aprile una risoluzione proposta da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Conteneva una serie di deplorazioni e lamentele contro Israele «potenza occupante». Non costituiva un atto di compassione per le vittime palestinesi della politica di Hamas, della Autorità nazionale palestinese e del governo israeliano, ma un successo – l’ennesimo in sede Unesco – della diplomazia dell’Anp, che ha ottenuto il si di 33 Stati (fra i quali la Francia), l’astensione di 17 paesi ( fra i quali l’Italia) e il voto contrario di Stati Uniti, Germania, Estonia, Lituania, Paesi Bassi e Regno Unito. Il voto però si è rivelato molto più che una scaramuccia fra delegazioni: perché interviene sulla definizione stessa dei luoghi santi. Sia quelli di Hebron, dove sono sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe; sia soprattutto quelli di Gerusalemme, definiti nel solo quadro della tradizione islamica, come se la tradizione ebraica non esistesse. Cancellare dal vocabolario Unesco l’espressione “Monte del Tempio” e indicare la spianata solo come sede delle moschee di “al-Aqsa” e “al-Haram al-Sharif”, non significa infatti scegliere un codice linguistico ed escluderne un altro. Implica un tentativo di negare il punto del mondo che lega Israele alla Terra. Mina sul piano del vocabolario l’equilibrio fragilissimo che regge Gerusalemme anche oggi. Forse alla fine dei giorni Gerusalemme sarà davvero fondata sulle enormi e scintillanti colonne descritte dall’Apocalisse di Giovanni di Patmos: ma nella storia e nella storia di oggi certamente non è così. Gerusalemme è la casa in cui ciascuno considera l’altro un intruso nella propria ricerca dell’infinitamente Altro. E se questa distanza non diventa guerra è perché filiformi abitudini, patti taciti e convenzioni esili reggono la coabitazione in questo luogo che incorpora il monte dove il Dio di Abramo rifiutò il sacrificio di Isacco, il Sion cantato da Davide, le pietre del tempio di Salomone, i luoghi di predicazione di Gesù, la roccia da cui Maometto salì al cielo. Un groviglio inestricabile, che fa si che anche chi non crede a nessuno di questi “racconti”, senta la densità che secoli di preghiere e di violenze hanno iscritto nelle pietre della città e nei suoi tanti nomi. La sete di Dio, il tempo che scorre, il sangue che cola hanno creato gli equilibri impossibili di Gerusalemme. Così che potere dopo potere si è solidificato lo “status quo” per antonomasia: un insieme di convenzioni e convinzioni diventato immobile. Né il sultano, ne i mandatari inglesi, né il regno Hashemita, né lo Stato d’Israele hanno infatti mai pensato di mutare destinazioni e confini di questo fazzoletto di mondo. Gerusalemme anche per questo non é un luogo particolarmente violento: Aleppo, Mosul, Grozny ci farebbero la firma a vivere in quella tensione che taglia l’aria fra Gerusalemme e il cielo; ma è il luogo in cui ogni calcolo o errore di calcolo diventa catastrofe. Un calcolo o un errore di calcolo fu quello di Ariel Sharon che il 28 settembre del 2000 volle traversare la Spianata delle moschee: non per rendere culto a quello che per gli ebrei è il Monte del tempio di Salomone, ma per un obiettivo politico puntualmente conseguito in quell’autunno della pace che seguiva alla uccisione di Rabin e alla fine del governo Peres. Quella passeggiata, però, segnò l’inizio della Seconda intifada, costata la vita a quasi 5mila persone e trasformò gli errori di Camp David in fossili. E stato un calcolo o un errore di calcolo quello che si è consumato da poco all’Unesco. Cancellare con una furbizia politico diplomatica il ricamo linguistico e spirituale di Gerusalemme non è solo una goffa negazione delle evidenze storiche ma una forzatura che lede, sul piano lessicale, lo “status quo”: lo hanno capito la Direttore generale Irina Bokova e la Cattedre Unesco del dialogo che su iniziativa del rabbino Aalon Goshen-Gottstein si sono mosse per ottenere una rettifica necessaria per impedire che dal luogo in cui Dio rifiutò il sacrificio di Isacco ricominci un altro rito di quel culto sanguinario che chiamiamo guerra.