ESISTEVA L’ANTISEMITISMO NEL MONDO ANTICO? di Augusto Sartorelli

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Osservatorio antisemitismo

Nel mondo antico l’opinione comune riguardo al Giudaismo e agli ebrei si è costruita in relazione alla concezione ebraica dell’unicità e immaterialità di Dio e alle pratiche e ai riti religiosi (circoncisione, osservanza del sabato,  prescrizioni alimentari) che vengono fraintese e derise dagli scrittori pagani. A questo va aggiunta la prevalente condizione minoritaria delle comunità ebraiche nel contesto delle società maggioritarie ospitanti. Già nell’Esodo (20,4,5) vengono esposti i presupposti del monoteismo radicale ebraico (“non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”) e viene narrata l’ostilità degli egiziani verso gli ebrei e l’inconciliabilità dei rispettivi sistemi religiosi. La condizione di dura soggezione imposta dai faraoni agli ebrei, determinò l’esodo di questi ultimi dall’Egitto e il loro stanziamento in Palestina o terra di Canaan. Alla disseminazione nel mondo antico di gruppi ebraici minoritari contribuì in modo determinante il fenomeno della Diaspora, ossia della dispersione ebraica iniziata nel 587 a.C. con la conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi, la distruzione del Tempio di Salomone (Primo tempio) e la deportazione della popolazione ebraica a Babilonia. La c.d. “cattività babilonese” ebbe fine nel 538 quando Babilonia cadde nelle mani del re persiano Ciro il Grande il quale autorizzò gli ebrei a ritornare nella loro terra e a ricostruire il Tempio. Non tutti gli ebrei ritornarono in Giudea: molti di loro, pur continuando a guardare a Gerusalemme come punto di riferimento nazionale e religioso,  rimasero nelle regioni in cui erano stati deportati. Da allora una parte degli ebrei visse in Giudea sotto dominazione persiana mentre l’altra, quella degli ebrei diasporici e destinata a divenire maggioranza, visse dispersa e frammentata  in tutte le parti del mondo allora conosciuto. Al periodo persiano risale la comunità ebraica di Elefantina sul Nilo posta come guarnigione a difesa del confine meridionale con la Nubia: a Elefantina la comunità ebraica aveva costruito un tempio che nel 410 a.C. venne distrutto dalla popolazione locale che negli ebrei vedeva i sostenitori dell’odiato governo persiano. Il dominio persiano della Giudea ebbe termine nel 333 a.C. quando Alessandro Magno irruppe in Asia e si impadronì della Palestina. Pur deciso a diffondere la cultura greca nei paesi conquistati, Alessandro non volle imporla con la forza agli ebrei che poterono continuare a vivere mantenendo le proprie istituzioni e tradizioni. Dopo la fondazione di Alessandria d’Egitto, Alessandro – reputando gli ebrei fedeli soldati e ottimi coloni – li sollecitò a trasferirsi nella città appena fondata (331). Oltre che ad Alessandria, forti comunità ebraiche erano presenti a Cirene, a Roma, in Grecia, in Asia Minore, in Mesopotamia, in India. Tali comunità svilupparono, in stretto rapporto con Gerusalemme, un’unità spirituale fondata sulla Torah (Pentateuco) e su un comune corpo di tradizioni. Dopo la morte di Alessandro, la Giudea passò sotto il dominio dei monarchi Tolomei i quali proseguirono la politica di tolleranza nei confronti degli ebrei. Tuttavia l’avvento delle dinastie ellenistiche determinò un difficile confronto ideologico tra Giudaismo e Ellenismo che divenne scontro aperto con l’avvento al trono della dinastia seleucide . Nel 175 a.C. Antioco IV Epifane iniziò, con l’appoggio di ebrei assimilati, un programma di ellenizzazione forzata del regno: proibì l’osservanza del sabato e il rito della circoncisione, costrinse gli ebrei a partecipare alla processione in onore di Dionisio e, soprattutto, introdusse nel Tempio il cosiddetto “abominio della desolazione”, ossia una statua o un altare pagano. Contro le violenze di Antioco, si organizzò attorno alla famiglia degli Asmonei (Maccabei) una rivolta che, iniziata come guerriglia, ebbe alla fine successo e portò alla liberazione di Gerusalemme. Lo storico Diodoro Siculo narra che nel 134 il re di Siria Antioco VII Sidete stava assediando Gerusalemme quando i suoi consiglieri lo esortarono non soltanto a conquistare la città  ma anche ad «estirpare alla radice la massa dei Giudei» perché «essi solo fra tutti rifiutavano di avere ogni rapporto con ogni altro popolo e li consideravano tutti come nemici». I consiglieri ricordarono al re che l’empietà e la misantropia degli ebrei avevano già determinato la loro cacciata dall’Egitto e provocato la profanazione del loro tempio da parte del suo antenato Antioco Epifane.  Nel 64 a. C. Pompeo invase la Siria ponendo fine alla monarchia seleucide e annettendo la Giudea al dominio romano. Occupata Gerusalemme, Pompeo espugnò il Tempio e penetrò nel Santo dei Santi meravigliandosi di non trovarvi nessuna immagine ma soltanto «un vuoto mistero». I romani garantirono agli ebrei la pratica della religione e il mantenimento della loro identità nazionale. Tuttavia ad Alessandria la conquista romana determinò un cambiamento degli equilibri intercomunitari e interetnici all’interno della società alessandrina. I romani, a differenza dei Tolomei, privilegiarono i greci nell’assegnazione delle cariche amministrative e imposero una tassa agli abitanti non greci, ebrei e egiziani, della città.  Questo determinò un declassamento degli ebrei al livello sociale degli egiziani. Nel 38 d.C. , sotto l’impero di Gaio Caligola, le tensioni sociali sfociarono nel primo eccidio di massa di ebrei di cui esista memoria. La visita a Alessandria di Erode Agrippa I, che Caligola aveva nominato re di una vasta parte della Palestina, fornì alla popolazione pagana l’occasione  per deriderlo in quanto re ebreo. Inoltre il prefetto romano Flacco, ritenendo di fare cosa gradita all’imperatore, ordinò l’esposizione nelle sinagoghe delle sua effige. Alle proteste degli ebrei Flacco reagì con un decreto che aboliva il diritto di cittadinanza degli ebrei alessandrini e imponeva loro di lasciare la città. In tale occasione si scatenò la furia antiebraica della plebaglia pagana, soprattutto egiziana, che si abbandonò a uccisioni, saccheggi e incendi  nei quartieri ebraici. L’eccidio venne descritto, in tutti i suoi raccapriccianti particolari, in due opere (In Flaccum e Legatio ad Caium) da Filone di Alessandria, filosofo ebreo di lingua greca, che fu testimone oculare di questi tragici eventi. Lo stesso Filone nel 40 guidò a Roma una delegazione per chiedere a Caligola di ripristinare i diritti della comunità ebraica mentre da parte greca fu inviata un’altra delegazione guidata da quell’Apione contro il quale, come vedremo, Giuseppe Flavio scrisse un’apologia del Giudaismo. Per avere giustizia gli ebrei di Alessandria dovettero però attendere fino alla morte di Caligola (41) e l’avvento al trono del nuovo imperatore Claudio. Nel 37 d.C. venne proclamato re di Giudea Erode (il Grande) che regnò sotto protettorato romano fino al 4 d.C.. Questa soggezione diretta ai romani si interruppe brevemente sotto il regno di Erode Agrippa (38-44 d. C.), amico dell’imperatore Caligola. Dopo Agrippa la Giudea non ebbe più neppure una parvenza di autonomia politica e fu soggetta al procuratore romano residente a Cesarea. Il governo dei procuratori, benché gli ebrei godessero in patria e in tutto l’impero di libertà religiosa e di esenzione dal culto imperiale, fu sempre più spesso provocatorio e repressivo: la rivolta giudaica scoppiò nel 66 (prima guerra giudaica) e si concluse nel 70 con la presa di Gerusalemme da parte di Tito e la distruzione del Tempio. Sotto l’imperatore Traiano, tra il 115  e il 117,  lo stato di endemica ribellione degli ebrei provocò una grande insurrezione nazionalistico-religiosa nella Diaspora (seconda guerra giudaica), in Cirenaica, Egitto e Cipro. La terza e ultima guerra giudaica scoppiò nel 132 allorché l’imperatore Adriano proibì la circoncisione e avviò un piano urbanistico per trasformare Gerusalemme in una città pagana. L’insurrezione fu faticosamente e sanguinosamente domata nel 135 e la popolazione ebraica ne uscì decimata. Adriano vietò agli ebrei l’ingresso a Gerusalemme, e “rifondò” la città col nome di Aelia Capitolina. La distruzione di Gerusalemme ebbe due conseguenze rimaste determinanti per l’ebraismo fino alla fondazione, nel 1948, della Stato di Israele: la perdita di un territorio proprio come elemento di esistenza nazionale e lo spostamento del centro della vita religiosa, culturale e comunitaria ebraica dalla Palestina alla Diaspora. Diaspora che, già iniziata nel periodo del secondo Tempio, venne alimentata dalle successive tragiche vicende palestinesi e formò all’interno dei diversi paesi dei nuclei ebraici chiusi, non assimilabili al resto della popolazione e impegnati nella rigida difesa delle proprie peculiarità religiose e culturali.

Le vicende degli ebrei in Egitto, Siria-Palestina e Roma evidenziano come l’ostilità nei loro confronti fosse  causata sia da ragioni politiche sia dalle caratteristiche della religione giudaica. Noi conosciamo le accuse contro gli ebrei che circolavano nell’impero grazie a Giuseppe Flavio, lo storico ebreo che alla fine del I secolo a.C. espose nel Contro Apione una confutazione di tali accuse e calunnie. Nel suo scritto Giuseppe Flavio raccolse le testimonianze di numerosi autori i quali polemizzarono aspramente , tra il terzo e il primo secolo a.C, contro gli ebrei: tra questi Manetone, Lisimaco e lo stesso Apione. Manetone, storico e sacerdote egiziano di lingua greca vissuto all’inizio del III secolo a.C., affermò in contrasto con il racconto dell’Esodo, che gli ebrei non fuggirono dall’Egitto con l’aiuto di Dio  ma ne furono scacciati perché stranieri e colpiti dalla lebbra. Il tema fu ripreso dallo scrittore greco-egiziano Lisimaco (II sec. a.C.) che aggiunse il particolare di Mosè il quale, conducendo il suo popolo verso luoghi abitati, avrebbe ordinato «di non trattare nessuno benevolmente, di non consigliare per il ben ma per il male, di abbattere i templi e gli altari degli dei in cui si fossero imbattuti». Il grammatico alessandrino Apione (20 a.C. – 45) confermò la discendenza degli ebrei dai lebbrosi cacciati dall’Egitto e li descrisse indegni della cittadinanza alessandrina, ostili verso gli altri popoli, sacrileghi, superstiziosi e senza Dio, dediti a sacrifici rituali. Secondo Apione, una volta all’anno gli ebrei avrebbero rapito un pagano di nazionalità greca e lo avrebbero ingrassato per poi ucciderlo in un sacrificio rituale. Nel Contro Apione Giuseppe Flavio non si limita a confutare le accuse contro gli ebrei ma svolge un’appassionata esposizione e celebrazione del Giudaismo.

Quando, nel 63 a.C., Roma assunse il controllo della Giudea e crebbe di conseguenza l’interesse per il popolo ebraico e per le sue tradizioni religiose, la tradizione antisemita greco-egiziana era già profondamente radicata nel mondo classico. Tale tradizione veniva a inserirsi, con caratteristiche proprie, in un più ampio pregiudizio romano nei confronti dei popoli orientali. L’interesse per il Giudaismo venne ulteriormente alimentato dalle guerre giudaiche e dalla presenza sempre più numerosa della comunità ebraica di Roma. I primi commenti sugli ebrei si trovano nell’orazione Pro Flacco pronunziata nel 59 a.C. da Cicerone (106 – 43 a.C.) in difesa di Lucio Valerio Flacco, ex governatore della provincia romana d’Asia, accusato di corruzione. Fra le imputazioni a suo carico, quella di avere confiscato l’oro che gli ebrei della sua provincia avevano raccolto per il tempio di Gerusalemme. Cicerone insinua che Elio, l’accusatore di Flacco, si fosse procurato, per assistere al processo,  una folla di ebrei in grado di esercitare pressioni e formulare minacce nei suoi confronti. Per Cicerone l’accusa a Flacco non solo è falsa ma il suo comportamento è  assolutamente encomiabile: l’invio di oro a Gerusalemme da parte degli ebrei d’Italia è espressione di una barbara superstitio che è in netto contrasto con la religio posta a fondamento degli ideali politici, culturali e religiosi della tradizione romana (mos maiorum).  Cicerone afferma:

Ogni stato, Lelio, ha la propria religione, e noi abbiamo la nostra. Anche quando Gerusalemme era ancora in piedi e gli ebrei in pace con noi, la pratica dei loro riti sacri era incompatibile con la gloria del nostro impero, con la dignità del nostro nome e con le istituzioni dei nostri antenati; e ora che quella gente ha mostrato con una ribellione armata quali sono i suoi sentimenti verso il nostro dominio, ciò è ancora più vero; quanto cara essa fosse agli dei immortali è stato mostrato dal fatto che è stata sconfitta, data in appalto agli esattori delle imposte, e resa schiava. (Pro Flacco, 69)

Sono soprattutto il monoteismo le pratiche religiose ebraiche ad essere fraintese e derise dagli scrittori pagani. Tacito afferma che «i Giudei concepiscono un unico dio e solo col pensiero; profanazione è per loro costruire con materia caduca immagini divine in sembianza umana, perché l’essere supremo ed eterno non può subire una rappresentazione ed è senza fine. Per questo non pongono simulacri di dèi nelle loro città e tanto meno nei loro templi; né riservano tale forma di adorazione per i loro re, né di onore ai Cesari». (Historiae, V, 2, 1). Il monoteismo e l’immaterialità di Dio (Deus incertus)   appaiono concetti stravaganti e astrusi per i quali gli ebrei vengono tacciati di ateismo  L’accusa tuttavia non comportava conseguenze legali dal momento che, secondo la legislazione romana, gli ebrei erano esentati dal partecipare ai culti statali, compreso quello dell’imperatore. Plinio il Vecchio definisce gli ebrei gens contumelia numinum insignis (Naturalis Historia, XIII, 4, 46), ossia popolo rimarchevole per il suo disprezzo degli dei. Le pratiche e i riti religiosi (circoncisione, rispetto del sabato e regole alimentari), che Tacito definisce assurde e turpi (Iudaeorum mos absurdus sordidusque), portano gli ebrei ad autoescludersi dalla società e per questo vengono accusati di misantropia e di avversione verso il genere umano. Tra le pratiche e i riti religiosi, la circoncisione è oggetto di scherno da parte di Apione e di battute oscene da parte di Marziale. Orazio (65 a.C. – 8 d.C) nella celebre satira del seccatore definisce gli ebrei «curti iudaei» (Satire, I, 9) mentre Catullo (Carmina, 47) parla di «quel Priapo circonciso» ( verpus Priapus ille). Il rispetto del sabato viene visto come un segno di indolenza; S. Agostino ricorda che, secondo Seneca, tale superstiziosa osservanza porta gli uomini a sprecare  la settima parte della loro vita e a danneggiare sé stessi rinviando ciò che doveva essere compiuto subito (Seneca, De Superstizione in Agostino, La Città di Dio, VII, 11). Secondo Rutilio Namaziano, l’ultima voce della poesia pagana tra il IV e gli inizi del V secolo d.C., gli ebrei osservano il sabato «ad imitazione del loro Dio sfaticato».  Anche l’astensione dalla carne di maiale è per gli antichi causa di stupore: solo Plutarco si è interrogato sulle ragioni di questa proibizione concludendo che si tratta di una misura igienica perché i maiali sono colpiti dalla lebbra e dalla rogna. L’osservanza del precetto contribuisce ad aumentare l’autoseparazione degli ebrei dalla società circostante impedendo loro di condividere la tavola con i pagani. Nel De reditu suo Namaziano ricorda come il suo rapimento di fronte a un paesaggio idilliaco venisse turbato dalla presenza di un fattore ebreo, un individuo litigioso e asociale per il quale il cibo umano risultava ripugnante  (querulus … ludaeushumanis animal dissociale cibis).  Una grande sintesi dell’atteggiamento romano verso gli ebrei si trova nel quinto libro delle Historiae di Tacito (54 – 120 d.C.): il punto di partenza è costituito  dal tema dell’origine del popolo ebraico che egli tende a identificare con la versione greco-egiziana della cacciata dall’Egitto durante una pestilenza «trasferendo in un altro posto gli uomini di quella razza, invisa agli dei (id genus hominum ut invisum deis alias in terras avehere iussum). Tacito continua descrivendo alcuni costumi ebraici dando di essi spiegazioni improntate a una profonda antipatia (astinenza dalla carne di maiale, digiuni, pane azzimo, sabato).

Di questi riti, comunque siano stati introdotti, si giustificano con l’antichità. Le altre usanze, sinistre e laide, s’imposero con la depravazione. Infatti tutti i delinquenti, rinnegata la religione dei padri, là portavano contributi di denaro e offerte, per cui s’accrebbe la potenza dei Giudei, ma anche perché fra di loro sono di un’onestà tetragona e immediatamente disposti alla compassione, mentre covano un odio mortale contro tutti gli altri (adversus omnis alios hostile odium). Mangiano separati, dormono divisi; benché sfrenatamente libidinosi, si astengono dall’accoppiarsi con donne straniere, ma fra loro l’illecito non esiste. Hanno istituito la circoncisione per riconoscersi con questo segno particolare e diverso. … Tuttavia si bada ad accrescere il popolo: infatti non è lecito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito e considerano immortali  le anime di coloro che muoiono in battaglia o come martiri: da qui deriva il desiderio di generare e il disprezzo per la morte.

L’ostilità nei confronti degli ebrei porta Tacito ad apprezzare il tentativo di ellenizzazione forzata messo in atto da Antioco Epifane: «Finché l’Oriente fu soggetto agli Assiri, ai Medi, ai Persiani, i Giudei furono la parte più spregiata dei loro sudditi; quando prevalsero i Macedoni, il re Antioco tentò di estirpare il loro fanatismo, introducendo i costumi greci, ma la guerra contro i Parti gli impedì di incivilire quella gente sconcia». Oltre a denunciare le usanze giudaiche (sinistra foeda) e la misantropia, Tacito deplora la condotta di chi «adotta i loro costumi, segue la medesima pratica, e la prima cosa che imparano è disprezzare gli dèi, rinnegare la patria, spregiare genitori, figli, fratelli». Preoccupato dal declino degli antichi costumi  e virtù romane, Tacito vede nel proselitismo e nell’esclusivismo degli ebrei una grave minaccia alla struttura della società romana. Preoccupazione ampiamente condivisa da Giovenale (55 – 127 d.C.) che nelle sue Satire, oltre a mostrare un atteggiamento xenofobo nei confronti degli stranieri in generale e un profondo disprezzo per le religioni orientali,  denuncia con particolare timore la diffusione nella società romana di atteggiamenti giudaizzanti. Così, nella XIV satira sull’educazione dei giovani, mette in evidenza i cattivi esempi dati dalla condotta dei padri tra i quali il padre che venera il sabato (metuentem sabbata):

Chiunque abbia avuto per padre un osservante del sabato non adorerà che le nuvole e le divinità del cielo; non farà differenza fra la carne umana e quella del maiale, da cui si astiene il padre; e ben presto si farà anche circoncidere. Cresciuto nel disprezzo delle leggi romane, studia, osserva e venera solo la legge giudaica, tutto quel che Mosè ha trasmesso ai suoi seguaci in un misterioso volume: non indicare la strada al viandante che non pratica lo stesso culto,  mostrare una fonte solo al circonciso. E tutto ciò perché il padre aveva trascorso nell’inattività ogni settimo giorno, senza prendere parte alcuna ai doveri della vita

La denuncia di Giovenale era chiaramente diretta contro un fenomeno dell’epoca, il crescente proselitismo ebraico, e i due personaggi, padre e figlio, dovevano essere figure in quel tempo socialmente riconoscibili.

Nel mondo antico al generale sentimento xenofobo di avversione per ciò che è straniero si aggiunge, nel caso degli ebrei, il separatismo di origine religiosa che li aggrega in comunità internamente solidali ma che non si integrano nella società maggioritaria. I motivi religiosi della separatezza vengono interpretati come ostilità verso i non ebrei: di qui le accuse di empietà e di avversione per il genere umano. Inoltre, l’indubbia attrazione esercitata dal monoteismo aniconico del Giudaismo sui ceti sociali più elevati favoriva, secondo la denuncia di alcuni autori, il proselitismo ebraico e la conseguente disgregazione della società romana e dei suoi valori tradizionali. Con l’avvento del Cristianesimo due nuove e inaudite accuse verranno ad aggiungersi all’arsenale antisemita del mondo antico: l’accusa di non avere accolto Gesù come il Messia annunciato dai profeti e quella di averlo ucciso.

Riferimenti bibliografici:

Flavio Giuseppe, Contro Apione, Marietti, Genova 2007

Peter Schäfer, Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico, Carocci, Roma 1999