11 Marzo 2021

Rav Giuseppe Momigliano risponde ad Antonio Ferrari

Fonte:

Moked.it

Autore:

Giuseppe Momigliano

I Giusti e la chiarezza necessaria

Nei giorni scorsi è apparso sul Corriere della Sera uno sconcertante articolo del giornalista Antonio Ferrari che usa espressioni particolarmente gravi ed offensive nei confronti di quanti nel mondo ebraico non concordano con il progetto Gariwo di estendere il riconoscimento del titolo di “Giusti” al di fuori della definizione data allo Yad Vashem, ove, come noto, viene riferito alle persone non ebree che hanno fornito aiuto e protezione agli ebrei durante la Shoah, senza richiedere alcun tipo di ricompensa. È necessario innanzitutto ricordare il fatto che il titolo di “Giusto tra le nazioni” nasce nell’insegnamento rabbinico con l’espressione “Chasidè ummot haolam” riferito a quanti, al di fuori del popolo ebraico, adempiono ai Sette Comandamenti Noachidi, considerati il fondamento etico di comportamento e di presa di distanza da ogni forma di idolatria, a cui dovrebbero attenersi tutti gli uomini. Lo Yad Vashem ha inteso utilizzare questo titolo di “Giusto” per esprimere, da un lato, la riconoscenza del popolo ebraico nei confronti dei pochi fra tutti i popoli che si sono prodigati per salvare la vita anche di un solo ebreo, inoltre per rappresentare il valore emblematico di esempio di quanti nell’imperversare dello sterminio, nelle tragedie del conflitto mondiale, in quei frangenti non hanno girato il volto, non sono stati indifferenti, hanno scelto la vita e lo hanno fatto consapevoli del pericolo cui andavano incontro e con le motivazioni più diverse, in favore di persone per lo più estranee, sconosciute, nei confronti delle quali non avevano specifiche responsabilità, se non quelle di condividere la stessa dignità di esseri umani. Il valore esemplare per il mondo di quei comportamenti scaturisce dalle circostanze specifiche in cui si sono realizzati, la loro forza evocativa nasce dal fatto di aver scelto il bene e la vita quando dominavano nel mondo i valori opposti, la loro forza è anche nel fatto che il comportamento per il quale vengono riconosciuti come giusti è chiaramente definito, deve essere comprovato e non è legato ad alcun tipo di ideologia specifica; questi aspetti specifici ci possono far comprendere alcune delle forti perplessità relative all’estensione dell’attributo di “giusto” messo in atto dal progetto Gariwo per includere un’ampia scelta delle più diverse categorie di comportamenti ritenuti virtuosi. Ovviamente non si discute l’importanza di far conoscere al mondo azioni e personaggi considerati in vario modo esemplari, tuttavia il ricorso alla qualifica di “giusto fra i popoli” è assolutamente problematica per vari motivi. Innanzitutto, in una così ampia cerchia di categorie a cui viene estesa, la scelta del “giusto” risulta legata a parametri molto diversi fra loro, nei quali le varianti relative al carattere particolarmente significativo dell’azione o del personaggio, al valore morale esemplare, al coraggio, allo spirito di sacrificio, sono spesso opinabili, discutibili, difficilmente si possono riassumere con la medesima definizione di riconoscimento, nella maggior parte dei casi si tratta di comportamenti sicuramente nobili ma che esprimono valori diversi rispetto a quelli cui si rivolge Yad Vashem. Ad esempio, nel progetto Gariwo vengono evidenziati personaggi che hanno combattuto e si sono sacrificati per la libertà del proprio paese, contro la tirannide di dittature, per la dignità dei diritti umani, però sacrificarsi per il proprio paese è un comportamento concettualmente diverso rispetto al rischiare la vita per estranei di un altro popolo, di un’altra religione, per di più da secoli vilipesa e umiliata; mettere in gioco la propria vita per i grandi ideali di vita e di libertà è sempre una scelta che testimonia la levatura morale e di civiltà di chi le compie, tuttavia c’è pure una differenza tra chi opera nel buio di una dittatura, sapendo però di non essere solo nella sua lotta, sapendo che nel mondo tanti popoli vivono nella libertà e nell’ambito di leggi civili, rispetto a chi si metteva a repentaglio per salvare degli sconosciuti, senza poter avere certezza alcuna che il mondo attorno a lui sarebbe mai uscito dall’incubo del terrore. Ci sono nel novero dei giusti riconosciuti come tali da Gariwo personaggi che hanno illuminato il loro ruolo nel campo della giustizia, della difesa dei diritti umani, nella ricerca della pace tra i popoli, ma anche per questi casi ci troviamo in una prospettiva di valori diversi, sono cioè persone di grande statura morale che hanno esplicato le loro migliori qualità di pensiero, di azione e di sentimenti, ma in fin dei conti hanno realizzato al meglio il compito che essi avevano scelto per la propria vita. Nello Yad Vashem invece, nella maggior parte dei casi, vengono alla luce comportamenti che andavano assolutamente al di là dei compiti, del ruolo o dei più comuni valori di riferimento rispetto al protagonista dell’episodio che viene ricordato. I giusti di Yad Vashem ci testimoniano una capacità di scegliere il bene e la vita al di là di ogni condizionamento, nelle condizioni più precarie, talora come uno scatto improvviso della propria coscienza, perfino in contrasto con precedenti percorsi di vita mediocri, banali. Ci danno l’idea di come di fronte alla possibilità di essere occasione di vita per un altro essere umano possa manifestarsi nell’uomo, anche in modo imprevedibile, una capacità straordinaria di agire con coraggio, con determinazione, con lucida comprensione dei confini tra il bene e il male. Un’ulteriore problematicità nel progetto Gariwo è data dal fatto che la scelta di ampliare in modo indefinito la categoria di “giusto” lascia spazio ad iniziative locali incontrollate ed ingestibili, come riconosciuto dagli stessi rappresentanti di questa istituzione, iniziative gravi in cui vengono gratificati personaggi di dubbia rilevanza ed alcuni che appaiono ai più indegni di tale riconoscimento e che macchiano il significato stesso della parola e di ciò che essa deve rammentare. Al contrario, i giusti di Yad Vashem, nel ricordo delle circostanze estreme in cui hanno agito, testimoniano anche dell’unicità della Shoah che in quanto tale rimane come un segno inequivocabile di monito per l’umanità, tema su cui si è recentemente espresso in modo molto chiaro e approfondito rav Roberto Della Rocca. Nel riconoscimento dell’assoluta particolarità della Shoah consiste anche la possibilità per la civiltà di comprendere a che punto si trovi del proprio cammino, considerando da un lato il diffondersi della cultura di diritti umani e il riconoscimento di criteri di maggiore giustizia, dall’altro il permanere di diffuse condizioni di umiliazione e prevaricazione, la mancanza di fondamentali condizioni di dignità umane insieme al manifestarsi ricorrente delle espressioni più grette e meschine del carattere umano. Segni contraddittori che ci ricordano la strada percorsa e quanto ancora debba essere fatto per parlare di vero e radicato progresso dell’umanità.

Certo il progetto Gariwo ha ormai una sua connotazione nei vari riconoscimenti che ha ricevuto, tuttavia bene farebbe a tenere presente le differenze sostanziali rispetto al modello dello Yad Vashem, cercando una propria specifica identità e propri simboli con i quali proporre all’attenzione del mondo modelli di valore e comportamento certamente importanti ma che devono restare distinti dalla Memoria della Shoah, proprio per non rischiare di offuscare e indebolire quel riferimento che è essenziale per il futuro dell’umanità e a cui Gariwo intende richiamarsi.

Prima di concludere devo ancora fare un breve riferimento all’ultima parte del testo di Ferrari, nel quale il giornalista porta come esempio del futuro che lo entusiasma i rapporti di particolare fraternità fra le religioni, rappresentati emblematicamente, a suo dire, da una chiesa in costruzione in Germania, che accoglierà uniti in preghiera i fedeli delle tre religioni monoteistiche e dalla famiglia di una sua stimata collega, in cui padre, madre e figlia sono ognuno di una diversa religione. In sostanza caldeggia il sincretismo religioso, il banale appiattimento delle differenze, la confusione delle diverse identità dal quale il giornalista si aspetta la costruzione di un mondo sicuramente migliore. Si tratta di una tesi assolutamente pericolosa; innanzitutto rinunciare a parti essenziali della propria identità nella prospettiva di un ipotetico ideale di pace e condivisione significa inseguire chimere, non si costruisce qualcosa di veramente nuovo e di solido per il futuro rinnegando le proprie caratteristiche ma al contrario aprendosi al dialogo e ad un confronto in cui rimaniamo totalmente noi stessi, nel modo di vivere e di pensare, disponibili però a riconoscere e rispettare chi è diverso da noi. La rinuncia sostanziale ad esprimere la propria identità religiosa non porta affatto ad un mondo migliore, crea disagio, squilibri, disadattamento, sollecita reazioni opposte di chiusura e accentuazione della diversità e nei casi peggiori, come ben sappiamo, viene strumentalizzata nel fanatismo fino ai più orrendi crimini. Infine nasconde dietro la più rosea immagine di pace un atteggiamento sostanzialmente intollerante nei confronti di chi invece desidera e ritiene giusto e utile mantenere pienamente la propria identità che viene praticamente tacciato di impedire il progresso, di voler ricacciare il mondo in un oscuro passato.

Stupisce che si possano esprimere tesi così lontane da un concreto fondamento e da riscontro nella realtà. Argomenti complessi e delicati come i rapporti tra le diverse comunità religiose, in cui, come insegna la storia, gli errori costano carissimo richiedono un ben diverso approccio, ponderato e responsabile.

Rav Giuseppe Momigliano,

componente della Giunta dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane