6 Marzo 2024

Luigi Manconi spiega perché non si deve usare il termine “genocidio” in relazione alla guerra tra Hamas ed Israele

Fonte:

La Repubblica

Autore:

Luigi Manconi

Gaza, non usare la parola genocidio

Dai giorni successivi alla strage del 7 ottobre scorso ho intenzionalmente rifiutato di ricorrere al termine “genocidio” per definire la reazione dell’esercito di Israele al pogrom di Hamas. A sollecitarmi affinché pronunci quella parola sono figli e amici cari, analisi approfondite e reportage strazianti: e, tuttavia, resto convinto che l’uso di quella espressione sia da evitare. E non per una ragione esclusivamente o principalmente di natura linguistica. La categoria di genocidio risponde a requisiti precisi e a circostanze rigorosamente definite e, dunque, va evocata — proprio per la sua terribile imponenza etica — solo quando effettivamente se ne verifichino le condizioni. Non per analogia, dunque, ma per la sua concreta e materiale ricorrenza. Conseguentemente, l’indeterminatezza e l’approssimazione nell’attribuire quell’etichetta, o il suo uso superficiale, producono l’effetto di sminuire il senso inappellabile del giudizio e la portata della condanna, fino alla banalizzazione. Insomma, se chiamiamo genocidio cose che non lo sono, rischiamo di non avere parole per definire ciò che davvero lo è. E non si tratta di un errore di scrittura odi pronuncia, bensì di una alterazione della memoria storica. La Convenzione di New York del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio indica tassativamente tutte le circostanze richieste perché il diritto internazionale riconosca quel delitto. In sintesi, è genocidio la distruzione parziale o totale di un gruppo etnico, religioso o nazionale, nel caso in cui vi sia l’intenzione di annientare quel gruppo in quanto tale. Come ha spiegato lo storico Marcello Flores, intervistato da questo giornale, il genocidio non è la conseguenza di una guerra, di una volontà di conquista odi una sopraffazione di potere, bensì la volontà pianificata di far scomparire dall’umanità quel gruppo particolare. È quanto va accadendo in queste settimane a Gaza? È indubbio che molti dei requisiti indicati dalla Convenzione di New York sembrano presentarsi e riprodursi nel corso dell’azione militare di Israele. Ciò nonostante, mi sembra che il termine genocidio resti inappropriato, in quanto non risulta colmata la differenza tra il massacro in corso e la Shoah, che costituisce l’orribile paradigma della categoria di genocidio. Si potrebbe dire così: la Shoah non fu la conseguenza di una guerra tra due popoli odi una rivolta di sudditi di una particolare etnia odi un conflitto per la supremazia; fu invece un progetto di sterminio pianificato e realizzato come espressione di una politica di potenza. La carneficina in atto a Gaza, il numero crescente di bambini morti per denutrizione e disidratazione, il blocco dei soccorsi e delle cure mediche configurano il delitto di genocidio? Continuo a pensare di no, anche se si tratta di fatti inequivocabilmente infami e moralmente ripugnanti. Per i quali il linguaggio del diritto internazionale, che li definisce crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è altrettanto inesorabile. Secondo l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Volker Türk, a Gaza i crimini di guerra sono stati commessi da entrambe le parti; e gli stupri di massa a opera di Hamas rappresentano un crimine contro l’umanità. Mala mia ritrosia a usare quel termine ha, in tutta evidenza, un’altra motivazione di natura storico-simbolica. Definire genocidaria la politica di Israele materializza quel ribaltamento di ruoli che rappresenterebbe per Israele il più rovinoso contrappasso: le vittime si sono fatte carnefici. Non solo: attenuerebbe la dismisura incalcolabile della Shoah e ne relativizzerebbe l’immane unicità anche rispetto ad altri genocidi del Novecento. Misi dirà: ma l’azione dell’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi non richiama, forse, una politica genocidaria? Forse, ma resta un’altra cosa, perché si tratta appunto di una reazione: al pogrom del 7 ottobre e, più in generale, a una guerra in corso da tre quarti di secolo. E c’è dell’altro: perché mai dovremmo usare il termine genocidio quasi che le espressioni prima utilizzate (crimini di guerra e contro l’umanità) non fossero sufficienti a esprimere una adeguata ripulsa morale? E quasi avessimo bisogno di alzare il volume, di inasprire il tono, di incattivire la voce per comunicare uno sdegno abbastanza altisonante? C’è il rischio, cioè, di ricorrere a un linguaggio estremo e a parole ultime per dare sfogo al senso di impotenza che tutti proviamo e a una emotività incontenibile, sacrosanta ma inerme. Temo che, così facendo, non acquisiamo maggiore conoscenza e maggiore consapevolezza della realtà, bensì solo una confortevole disperazione.

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