15 Giugno 2025

La partecipazione di Keshet al Pride di Roma: riflessioni sulle implicazioni per la sicurezza e l’inclusione degli ebrei LGBTQ

Fonte:

UGEI

Autore:

Sara Menasci

Nel cuore dell’Europa, mentre le piazze si tingono di arcobaleno per celebrare il Pride, alcune presenze risultano ingombranti. È il caso di Keshet Europe, rete ebraica di persone queer, che il 15 maggio 2025 ha scelto di tornare alla parata del Pride, nella manifestazione indetta a Roma, dopo un anno di assenza forzata. Nel 2024, infatti, a causa del clima crescente di antisemitismo, l’organizzazione aveva deciso di rinunciare alla partecipaziome per ragioni di sicurezza. Quest’anno hanno deciso di esserci, nonostante tutto: il timore, l’ostilità, l’incertezza. Hanno portato in strada i loro corpi, le loro voci, i loro simboli, pronti a reclamare uno spazio e a raccontare una storia.

“L’esperienza è stata un mix di emozioni – racconta Ariel Heller, presidente di Keshet Europe – Da una parte, la gioia di partecipare per la prima volta a un evento pubblico della nuova rete europea, con persone queer ed ebree arrivate da diversi Paesi. Dall’altra, il dolore profondo per essere stati delegittimati, esclusi, minacciati. Ci siamo sentiti davvero insultati e messi in pericolo”.

Ma la loro presenza ha generato, ancora una volta, tensione. Alla fine del corteo romano, dal carro dell’ARCI – realtà da sempre legata all’antifascismo e all’inclusione – sono partiti insulti, accuse infamanti, gesti minacciosi. Parole come “assassini” e “terroristi” sono urlate verso il gruppo di Keshet, in un contesto che, per definizione, dovrebbe essere uno spazio sicuro. L’accusa, più o meno esplicita, è la stessa di sempre: essere “il carro di Israele”, portare dentro il Pride una presenza letta come prolungamento del governo d’Israele. Da parte di Keshet, però, non c’erano né bandiere nazionali né riferimenti statali: solo la bandiera della pace, intrecciata a quella dell’orgoglio di essere ebrei. Un gesto semplice, ma oggi tutt’altro che neutro. “Non avevamo alcun simbolo israeliano. Abbiamo più volte lanciato appelli per la pace, ovunque nel mondo – anche in Medio Oriente. La pace è il nostro unico messaggio” ribadisce Heller.

In alcune piazze europee, la sola presenza della stella di David su uno sfondo arcobaleno è diventata oggetto di censura ed esplicito rifiuto. Questo obbliga a una domanda scomoda: l’Europa ha davvero fatto i conti con il proprio antisemitismo o, semplicemente, certi meccanismi di esclusione si sono trasformati, assumendo linguaggi nuovi, apparentemente più accettabili? Keshet Europe non si sottrae alla complessità del momento. Non chiede indulgenza, ma rifiuta la sovrapposizione automatica tra identità ebraica e governo israeliano. “Non rappresentiamo alcun governo. Non siamo il carro di alcuna nazione. Siamo persone. Siamo queer. Siamo ebree”, dichiarano nel loro comunicato. La loro presenza interroga non solo chi lancia accuse, ma anche chi, pur definendosi alleato, preferisce evitare il confronto. L’intersezionalità, spesso evocata come principio universale, si infrange sotto le contraddizioni della realtà discriminatoria. Parlare di antisemitismo oggi non significa negare altre sofferenze. Non esistono gerarchie del dolore, eppure lo spazio pubblico sembra chiedere continuamente di schierarsi “da una parte” o “dall’altra”, lasciando fuori le storie che non rientrano nei binari precostituiti del conflitto.

“Abbiamo chiesto aiuto al movimento, e il movimento è venuto. Ma anche in quel contesto, che avrebbe dovuto essere liberatorio e gioioso, ci siamo sentiti bersagliati per ciò che siamo. Nonostante l’assenza di simboli statali, siamo stati giudicati e attaccati. Questo dimostra quanto la volontà di dividere, di ridurre ogni identità a una bandiera, prevalga sulla possibilità di ascoltare davvero.” Keshet Europe ribadisce di non voler rappresentare alcuna nazione, ma solo le persone. Dalla parte di chi soffre, chiunque esso sia. Dalla parte della pace.

La questione, prima ancora che politica, è culturale. In un tempo in cui ogni parola può essere interpretata come una presa di posizione, ogni simbolo rischia di diventare un bersaglio. Eppure, esistere non dovrebbe mai essere considerato una provocazione. Keshet Europe chiede ora “una rettifica pubblica da parte di chi ha rilanciato questa notizia montata ad arte, affinché venga ristabilita una narrazione veritiera, rispettosa e responsabile” conclude il comunicato. È una richiesta di verità, ma anche di responsabilità. Continuare a esserci, nonostante tutto, è una forma di resistenza. In questo senso, la loro presenza interpella non soltanto il movimento LGBTQIA+, ma chiunque creda che la giustizia non possa fondarsi sull’esclusione. Forse non è una posizione comoda, ma sicuramente è una posizione necessaria.