27 Settembre 2016

Nikolaus Wachsmann, KL: Storia dei campi di concentramento nazisti, Mondadori

Fonte:

Osservatorio antisemitismo

Autore:

Alberto De Antoni

KL: storia dei campi di concentramento nazisti

Nel primo giorno della sua apertura nel 1933 a Dachau, il campo di concentramento vicino a Monaco e il primo ad essere aperto, furono uccisi a sangue freddo quattro prigionieri colpevoli di null’altro se non di essere ebrei; nella primavera del 1945 i cineoperatori dell’esercito americano ripresero inorriditi le immagini di migliaia di cadaveri tra i quali s’aggiravano altrettante migliaia di prigionieri sfiniti, affamati, ridotti a pelle e ossa e prossimi alla morte. In questi due episodi e in queste due date si consumò l’esperienza unica di una istituzione culturale del Novecento europeo: il campo di concentramento nazista.

Dachau riassume in se stesso la storia del nazismo. Sorto come originario campo di detenzione per prigionieri politici, gestito dalle SS al di fuori della giurisdizione penale statale, fu sin da subito luogo di arbitrio e di sadismo, di tortura e di morte. Ma, invece di rimanere relegato in una sorta di limbo oscuro della società, pian piano estese la propria etica dapprima in Germania, poi nell’Europa occupata. Nel campo, infatti, si formarono tutte quelle SS che divennero i dirigenti dell’universo concentrazionario nazista, ivi compreso Auschwitz.

Le ottocento e più ottime pagine del recentissimo KL: Storia dei campi di concentramento nazisti (Mondadori) di Nikolaus Wachsmann, professore di storia moderna al Birkbeck College dell’Università di Londra, che si aggiungono alle altrettanto ottime pagine di un precedente studio (Le Prigioni di Hitler. Il sistema carcerario del Terzo Reich, Mondadori), offrono un importante strumento d’analisi ricostruttiva del lager nazista. Si tratta di un’opera accademica, frutto di anni di ricerche e con una documentazione esauriente, in parte irraggiungibile al comune lettore, in parte produttiva di ulteriori approfondimenti. In particolare, secondo una tendenza in atto da alcuni anni, almeno nei Paesi di cultura anglosassone, l’autore cerca di ricostruire gli eventi della storia con lo sguardo delle persone comuni in essa coinvolte. In questo caso la freddezza del processo decisionale nazista s’accompagna ai sentimenti delle testimonianze delle vittime. Molte di queste appartengono a quella memorialistica del tutto particolare nota come “letteratura concentrazionaria”, un lascito del terribile XX secolo. Mancava, però, una storia collettiva dei lager nazisti, pur essendovi stati sinora degli studi su alcuni singoli campi che, come Dachau, Buchenwald e Mauthausen, sono stati assunti a simbolo della detenzione politica o, come Auschwitz, della Shoah. Rimangono esclusi dalla trattazione, se non per brevi cenni, i campi di sterminio di Chelmno, Sobibór, Treblinka e Bełzec perché estranei al circuito dell’amministrazione statale dei lager. Sorti in territorio polacco e dipendenti dal governatorato di Lublino, furono in pratica destinati all’assassinio in massa della numerosa comunità ebraica polacca; una volta esaurita la propria funzione furono smantellati. La loro gestione fu affidata al personale dell’operazione eutanasia, a uomini cioè che avevano già dato prove di capacità omicide nell’ambito dell’assassinio di uomini e donne portatori di handicap fisici e psichici. I campi di sterminio furono, dopotutto, il grande segreto e l’anima nascosta del Terzo Reich, il grande crimine, come sapevano gli stessi nazisti, destinato a rimanere per sempre occultato all’interno dei fatti bellici del fronte orientale. Sono invece presenti Auschwitz e Majdanek perché, accanto alla funzione di campi di sterminio, assolsero anche al compito di campo di lavoro forzato. A ragione di ciò l’assassinio di massa dell’ebraismo europeo non costituisce il tema principale del testo di Wachsmann; lo è solo di riflesso quando, nelle descrizioni delle atroci condizioni del lavoro forzato, è necessario aprire un capitolo del tutto particolare per gli internati ebrei dal momento che per essi era stato prevista una lenta e disumana morte attraverso le continue vessazioni, lo sfinimento fisico e psichico, una sorta di assassinio dilatato nel tempo, ma comunque perseguito con ferocia e determinazione.

 Proprio il lavoro forzato è lo stigma col quale il lager è stato conosciuto nell’immediato dopoguerra grazie alle testimonianze dei suoi sopravvissuti, deportati provenienti da ogni parte d’Europa. Nel suo momento di massimo apogeo l’intero sistema arrivò a contare 27 campi principali e 1.100 campi satelliti per un totale di circa 2.300.000 internati di cui 1.700.000 circa morirono di stenti. Gli ebrei non furono mai in maggioranza, destinati a tutt’altro destino e ad essi, principalmente, furono riservate quelle caotiche ma micidiali “marce della morte” e le fucilazioni in massa degli ultimi giorni del Terzo Reich. Solo il crollo della Germania e l’arrivo degli eserciti alleati impedì che quest’ultimo eccidio potesse essere realizzato sino in fondo.

 Poco in verità si può aggiungere alle descrizioni già note delle condizioni di vita all’interno dei lager: malnutrizione, sfinimento e sadismo sono termini che solo superficialmente possono descrivere le sofferenze dei deportati. Come è già stato scritto, mancano le parole per descrivere il lager. Ci si rammarica solo che, dinanzi alle cifre delle vittime, non sia possibile vedere in ogni numero un volto, un’esistenza, un essere umano. Non molto, altrettanto, può essere detto delle circa 60.000 SS – 18.000 solo a Auschwitz -, le famigerate unità dalla testa di morte (Totenkopfverbände), che prestarono servizio nei lager. Tolti i pochissimi che si rifiutarono di compiere assassini, la grande massa eseguì senza esitazione e soprattutto senza rimorso qualsiasi compito, anche il più tremendo, che le venne affidato. Il che darebbe adito a molte amare considerazioni sulla tenuta morale degli esseri umani in una situazione dove costrizione e ambizione si uniscono all’interno di un sistema criminale. Poche righe a chiusura del libro informano anche che pochi degli assassini furono raggiunti nel dopoguerra dalla giustizia o furono condannati a pene proporzionali ai propri crimini.

Interessante, invece, all’interno del lavoro forzato, la distinzione che emerge tra campi di lavoro gestiti dall’apparato industriale privato e quelli dalle SS. Nel primo caso, pur all’interno del massimo sforzo bellico e in condizioni di lavoro disumane, l’organizzazione riuscì a trovare una sua logica produttiva che aveva la sua base nelle capacità imprenditoriali dei dirigenti; al contrario, quelli gestiti dalle SS possono solo essere compresi all’interno di un’ideologia che contemplava dei “nemici” da imprigionare e da uccidere, quasi che il fine della dottrina totalitaria coincidesse con lo strumento per eccellenza della stessa. Infatti, a dispetto dei grandi sforzi – e anche del numero tremendo delle vittime – non furono di alcuna utilità per la guerra: Mauthausen fu solo un’immensa cava di pietra e Monowitz, noto per la testimonianza di Primo Levi, non entrò mai in funzione.

L’assoluta mancanza di realismo e di razionalità di questi campi traspare anche da piccoli episodi che di per sé, se non fossero inseriti nell’atroce contesto degli esperimenti medici compiuti sugli internati, lascerebbero solo perplessi. In uno di questi, svoltosi a Dachau, si cercò di rianimare dei detenuti artificiosamente assiderati con delle prostitute. Il fine, naturalmente, era quello di soccorrere i combattenti negli ambienti freddi o nella stagione invernale con il “calore animale”, come si espressero gli stessi medici delle SS. Ora, al di là del successo o meno di questa iniziativa, peraltro incerto nelle stesse documentazioni rimaste, viene spontaneo porsi una domanda: ma quale esercito, aviazione o marina porterebbe mai delle prostitute (ma quante? Dieci, mille, diecimila?) in prima linea? Ma la vera domanda dovrebbe essere ben altra: ma com’è stato possibile che una Nazione abbia potuto consegnare il proprio governo a della gente simile?