18 Agosto 2014

Intervista esclusiva a Georges Bensoussan di Laura Fontana

Fonte:

www.fontana-laura.it

Autore:

Georges Bensoussan

L’antisemitismo contemporaneo dopo Auschwitz: un “nuovo” codice culturale europeo?

Storico francese di livello internazionale, responsabile editoriale del Mémorial de la shoah, Georges Bensoussan è autore di numerosi saggi sulla memoria della shoah, sull’antisemitismo, sul sionismo e su Israele. Nel 2012 ha pubblicato “Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975” (Ebrei nei paesi arabi. Il grande sradicamento 1850-1975, edizione originale per Tallandier) in cui ha ricostruito la storia della dissoluzione, nel giro di una sola generazione, delle antiche comunità ebraiche installate in tutto il Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente. Un poderoso e documentato studio per narrare la distruzione di un mondo segnato da una secolare condizione di inferiorità umiliante, a cui si devono un insieme di fattori diversi, come la decolonizzazione, la nascita dello Stato di Israele, le condizioni di vita sempre più precarie e il radicarsi dell’ostilità arabo-musulmana. Un capitolo di storia ancora poco trattato e di cui, pertanto, non si conosce quasi nulla. Eppure si tratta di vicende che hanno molto da insegnarci sulla convivenza nel passato tra ebrei ed arabi, ma anche per aiutarci a leggere il contesto dell’antisemitismo contemporaneo in molti paesi occidentali – tra cui la Francia – in cui proprio quel passato sembra incidere con tutta la sua forza.

L.F. Negli ultimi mesi la stampa internazionale ha riportato il verificarsi di episodi sempre più gravidi violenza e odio nei confronti degli ebrei in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, dal Belgio alla Svizzera e, in minore misura, in Italia. Si tratta di manifestazioni apertamente antisemite, caratterizzate sia dalla violenza fisica che da una retorica molto aggressiva ed espressa in una generale caduta dei freni inibitori, in cui ricompare una giudeofobia dal volto conosciuto, mista però a qualcosa che non sempre riusciamo a decifrare e comprendere. Una miscela esplosiva di odio per gli ebrei che sembra auto-alimentarsi dall’ondata emotiva di reazioni inerenti la recente guerra a Gaza – in cui la protesta per le bombe e per i civili uccisi nel conflitto ha tirato in ballo Auschwitz e l’equazione Israele-nazismo -, ma anche dalla crescita di atteggiamenti sempre più intransigenti e violenti nei confronti delle minoranze di buona parte del mondo arabo musulmano dominato dall’islamismo (lo dimostra ciò che sta accadendo in paesi come la Siria, l’Irak, la Nigeria) e, infine, dalla rabbia delle giovani generazioni di immigrati di origine magrebina che popolano le banlieues delle grandi metropoli occidentali.

Professor Bensoussan può aiutarci a comprendere cosa sta accadendo? Siamo di fronte a un aggravarsi del fenomeno dell’antisemitismo o alle prese con un nuovo antisemitismo di matrice arabo-musulmana, importato in Europa sulla scia del conflitto in Medio Oriente?

Mi riferirò soprattutto alla Francia, paese in cui vivo e di cui conosco meglio la storia e le vicende. Innanzitutto la Francia non è un paese antisemita e l’antisemitismo tradizionale di Vichy e dell’estrema destra è oggi in declino. Ma indubbiamente siamo confrontati a una forma di antisemitismo che possiede uno stretto legame con l’immigrazione magrebina. Per una buona ricostruzione storica occorre sempre tenere conto anche dello sviluppo demografico e non è possibile comprendere la Francia contemporanea senza riferirsi alla sua storia culturale e antropologica, dopo l’ondata immigratoria che ha conosciuto negli ultimi decenni, dall’Africa del Nord e dall’Africa sub sahariana.

Credo, tuttavia, che non sia corretto parlare di importazione in Occidente del conflitto araboisraeliano per spiegare ciò che sta accadendo. Se indubbiamente i recenti fatti di Gaza – e più a lungo raggio le guerre che dal 1948 a oggi si sono succedute in Medio Oriente – hanno ravvivato la scintilla dell’odio, non l’hanno però originato.

Il mondo arabo è lacerato da tante conflittualità e tensioni. Eppure sono solamente Gaza e la Palestina a motivare la gente a scendere nelle piazze e a manifestare con passione. Poi, a ben guardare, la maggioranza dei manifestanti qui in Francia è di origine magrebina, ma non ha alcun legame biologico con la Palestina. Sono persone più vicine per cultura e origini all’Algeria, per esempio. Ciò nonostante, non si era mai assistito a manifestazioni di questa portata nemmeno all’epoca della guerra civile algerina degli anni Novanta. Il problema di fondo è che abbiamo importato sì un antisemitismo culturale di origine maghrebina, ma molto più antico e precedente alla colonizzazione, ovvero già esistente per secoli, in forme e livelli diversi, in tutto il Nord Africa e Medio Oriente..

Dove dobbiamo allora individuarne l’origine?

Bisogna ricostruire l’economia psichica del mondo arabo-musulmano, basata sulla sottomissione e sull’oppressione e all’interno della quale l’ebreo è sempre stato contrassegnato dalla condizione di “dhimmi”, una condizione di inferiorità segnata dall’umiliazione e dalla violenza. La dhimmitudine entrò in crisi nel corso dell’Ottocento con l’ingresso del mondo ebraico nella cultura illuminista e poi con l’incontro con la colonizzazione europea che permise agli ebrei arabi di raggiungere la modernità culturale e in molti casi anche un reale benessere economico. L’emancipazione, anche se spesso parziale, e l’elevazione dell’ebreo da essere sottomesso e appena tollerato a essere dotato di diritti e libertà, ha aggravato il risentimento della popolazione araba nei confronti degli ebrei, attizzando la rivalità, la collera e la frustrazione della popolazione locale. Il clima si è quindi fatto incandescente a seguito del fenomeno della decolonizzazione che ha portato con sé un ritorno aggressivo alla politica di oppressione da parte araba, unita a minacce, misure di espropriazione e discriminazioni umilianti. La conseguenza di tutto ciò è stato un lento ma inesorabile esodo degli ebrei arabi da quei paesi che nel giro di pochi decenni si sono letteralmente spopolati. Se nel 1945 oltre un milione di ebrei vivevano in Marocco, in Tunisia, nello Yemen, in Turchia, in Irak, in Egitto, oggi ne restano a malapena poche migliaia. La maggioranza ha scelto l’esilio o la fuga, per paura e per disperazione.

Allora qual è il legame tra queste vicende e le sorti attuali della Palestina?

La Palestina cristallizza la frustrazione degli arabi. Gli ebrei, che peraltro in Francia hanno raggiunto un grande livello di integrazione e di riuscita sociale, sono visti dai cittadini di origine magrebina o dagli immigrati arabi come rivali, come responsabili di tutti i loro problemi e in genere di tutti i mali della società moderna. Logicamente non sarebbe giusto generalizzare, ma la tendenza è questa. D’altro canto, l’islamizzazione di una parte della gioventù magrebina ha svolto un ruolo determinante nella radicalizzazione dell’odio per gli ebrei. Alcuni responsabili delle comunità, come il rettore della Grande moschea di Parigi Dalil Boubakeur, l’antropologo Malek Chobel o lo scrittore Abdelwahab Meddeb, lo hanno denunciato a chiare parole, ma restano voci isolate del mondo arabo. C’era già stata un’accentuazione del problema all’epoca della prima guerra del Golfo nel 1991 e i sociologi ci avevano messo in guardia, ma nessuno li ha presi sul serio. Oggi tutti pretendono di dare facili spiegazioni a quanto accade senza risalire alle origini e senza tener conto della demografia di un paese.

Perché la situazione in Francia appare più grave che altrove in Europa? Lo scorso luglio a Sarcelles, alla periferia parigina, ma anche in altre occasioni sia nella capitale che in altre città francesi abbiamo assistito a scene di inaudita violenza pubblica, con manifestanti che lanciavano molotov contro la sinagoga e urlavano “Allah è grande! Morte agli ebrei!”. Siamo di fronte a una situazione dalle proporzioni allarmanti?

Oggi la comunità ebraica francese rappresenta lo 0,7% della popolazione. Secondo le statistiche del Ministero degli Interni, essa è oggetto della metà delle aggressioni e degli atti razzisti e violenze fisiche che vengono commessi. Mi pare che la sproporzione tra queste cifre sia evidente e in sé allarmante. La violenza è diventata un fatto ricorrente e quasi banale purtroppo. Inoltre l’antisemitismo è oggi assunto a una sorta di codice culturale di integrazione delle minoranze immigrate. Ma va detto che violenze razziste e antisemitismo non derivano né dall’intera comunità araba, né dai soli magrebini immigrati in Francia, perché sono matrice comune di gran parte dell’immigrazione, soprattutto giovane anagraficamente, che popola le nostre periferie. Confrontati al problema della disoccupazione e di un’integrazione sociale e culturale non facile, buona parte di questi giovani immigrati tendono a identificare nell’ebreo la riuscita sociale, il benessere economico e quella modernità che da un lato li affascina e dall’altro li ripugna profondamente (penso in particolare alla questione dell’emancipazione femminile). Sebbene le autorità francesi facciano di tutto per reagire e condannare tali violenze, spesso il problema viene affrontato troppo tardi, senza cercare di capirne le origini e motivazioni, ma soprattutto senza il coraggio di andare a fondo nell’analisi. Perché non si può negare che buona parte delle élite politiche e degli organi di informazione temono di nominare le cose col loro nome, anche in ragione delle proporzioni numeriche della popolazione maghrebina o di origine arabomusulmana. Si preferisce allora parlare genericamente di violenze razziste o di tensioni violente tra minoranze e comunità, come se anche gli ebrei andassero in giro ad attaccare le moschee o a insultare i musulmani, occultando il fatto che sono essenzialmente vittime di attacchi e aggressioni e non gli artefici di analoghi atti.

Quindi pensa che oggi gli ebrei francesi siano in pericolo?

In parte certamente sì, anche se la situazione è diversa da regione a regione ovviamente. In Francia diventa pericoloso per gli ebrei portare segni identitari come la kippa, molte giovani coppie non osano più iscrivere i propri figli alla scuola pubblica. E basta osservare le stime delle emigrazioni per Israele, quasi 5.000 fino ad oggi nel 2014 (500 solo nel mese di luglio), rispetto a 1900 nel 2012 e appena 1000 alla fine degli anni Novanta. È stato oltrepassato un punto di non ritorno con 5 tentativi di mini pogrom in quindici giorni e centinaia di aggressioni fisiche e verbali negli ultimi due anni. Niente ci aveva preparato a una tale escalation di violenza fisica e a una tale liberalizzazione della parola antisemita. Liberazione che è stata stimolata da personaggi dell’estrema destra come Soral, Dieudonné e certamente Jean-Marie Le Pen e che ha permesso di far cadere il tabù del “dopo Auschwitz”. Se pensavamo che l’antisemitismo fosse morto nella shoah, beh eravamo proprio fuori strada! Tuttavia l’errore sarebbe di credere che il problema di questa violenza dilagante riguardi solo gli ebrei francesi. La maggioranza della popolazione è inquieta al riguardo, anche se tende a rimanere silenziosa in pubblico; soprattutto intuisce che ad essere in vero pericolo è l’identità francese che è qualcosa di più preoccupante, che va ben oltre i problemi tra minoranze. Relativamente invece al conflitto arabo-israeliano e alla guerra a Gaza, va riscontrato che gran parte della popolazione francese, e non solo francese, tende per ignoranza ed emotività a mescolare le carte e a confondere i piani, in questo una grossa responsabilità l’hanno i mass media con la scelta delle immagini che mostrano, dove il pathos è scelto come mezzo comunicativo. Allora si scende in piazza per protestare contro le violenze subite dalla popolazione palestinese e per i diritti dei palestinesi, attivismo in sé del tutto legittimo e che merita attenzione e spazio nel dibattito pubblico, ma contemporaneamente si incita all’odio contro Israele e contro tutti gli ebrei del mondo, insinuando il dubbio che siano tutti colpevoli di essere oggi i nuovi carnefici di vittime innocenti.

In effetti la stampa, le istituzioni pubbliche e le associazioni internazionali parlano di genocidio in Palestina e di crimini di pulizia etnica commessi dalla politica israeliana, il che rende facile, anche se deplorabile, l’identificazione Israele-ebrei, oltre ad esporre gli ebrei a divenire bersaglio di critiche e di ostilità, accusandoli di aver rovesciato il paradigma della vittime della shoah in persecutori e carnefici dei palestinesi.

Bisogna mantenere il rigore del vocabolario e la misura delle parole. Denunciare le vittime cadute nella guerra a Gaza non ci autorizza a parlare di genocidio, perché si tratta di una catastrofe umanitaria che è una conseguenza di un fatto di guerra, come purtroppo accade in qualunque conflitto armato. Ogni vita umana merita rispetto e a maggior ragione la morte di innocenti. Tuttavia non serve rincarare la dose e usare parametri inappropriati per denunciare la gravità di qualcosa. Inoltre, cosa significa parlare di una « purificazione etnica » in Palestina ? Come si può affermare una cosa simile quando il nazionalismo arabo non ha permesso alle altre minoranze, per esempio copta e berbera, in nessun paese a maggioranza arabo-musulmana di godere di una condizione di uguale dignità e integrazione giuridica e sociale? Senza parlare di come vivono oggi in molti paesi arabi le minoranze cristiane. Infine come parlare oggi di espulsione ed esproprio in Palestina senza prima ricordare che storicamente fu proprio l’ebraismo arabo ad essere pesantemente discriminato, spogliato di tutti i propri beni e cacciato via dalle terre in cui erano sempre vissuti tra il 1930 e il 1970 (soprattutto in Irak e in Libia)? L’ignoranza storica di questi fatti, ma anche del sionismo e della creazione di Israele fa sì che molti siano accecati dalla propria ingenuità. Inoltre si tende a ragionare per emotività, senza raziocinio, il che rende difficile la strada verso la comprensione.

Allora per concludere, l’antisionismo sarebbe una nuova forma dell’antisemitismo?

Nonostante la catastrofe di Auschwitz, la passione dell’antisemitismo sta rivivendo sotto i nostri occhi, si tratta di una passione polimorfa e polisemica, capace di risvegliarsi sotto molteplici aspetti, ma sempre rivitalizzando vecchi schemi di pensiero.La giudeofobia tradizionale poteva assumersi in quanto tale, poiché fino agli anni Trenta era frequente, direi normale, veder sorgere in Europa movimenti politici apertamente antisemiti. Non dimentichiamoci che l’antisemitismo rappresentava un codice culturale diffusissimo e riconoscibile. Oggi invece, per lo meno nel mondo occidentale, dopo Hitler e dopo la shoah non è più possibile dichiararsi esplicitamente antisemiti. Assumere allora il partito degli antisionisti che attaccano Israele e ne fanno un mostro criminale diventa una scelta di campo ipocrita, perché non è possibile minare la legittimità dello Stato di Israele e pretendersi non antisemiti. Che ovviamente non ha nulla a che vedere con la critica, sempre legittima in quanto espressione di democrazia, della politica del governo di un paese. Ma la cecità e l’ignoranza dei fatti rendono la visione sfocata e producono derive allarmanti, anche perché Israele permette a ognuno di vedere quello che cerca, non quello che realmente ha sotto gli occhi. Allora la sfida e il coraggio, come ha scritto Charles Péguy, sono che « bisogna sempre dire quello che si vede. Soprattutto bisogna sempre – il che è ben più difficile -, vedere quello che si vede”.