25 Dicembre 2015

Intervista a Shmuel Trigano sull’antisemitismo contemporaneo

Fonte:

Moked.it

Autore:

Guido Vitale, Shmuel Trigano

Dopo Parigi 2015 – L’intervista a Shmuel Trigano: “Svegliamoci. E in fretta”

Ci hanno detto che siamo in guerra. Ci hanno detto che ognuno di noi è un bersaglio. Ci hanno detto che siamo a una svolta, che la Storia sta scrivendo una nuova drammatica pagina sotto i nostri occhi. Ci hanno detto che un nuovo continente, sconosciuto e pericoloso, sta per emergere. Dobbiamo crederci o dobbiamo continuare come se niente fosse le nostre esistenze? Quali misure dobbiamo adottare, cosa dobbiamo attenderci dal futuro?

Sono questi in effetti tempi difficili e pericolosi. Ma soprattutto sono tempi difficili da interpretare. Molti intellettuali ebrei francesi, soprattutto il filosofo Alain Finkielkraut e lo storico Georges Bensoussan, come riferisce Pagine Ebraiche di dicembre, li avevano preannunciati tentando di rompere un muro di incoscienza e di malafede, o forse solo di fastidio nei confronti di chi vuole chiamare le cose con il proprio nome. Ma pochissimi hanno analizzato le cause delle ferite di Parigi e della solitudine degli ebrei in Europa nelle loro radici profonde come il sociologo Shmuel Trigano. Pochi sono oggi in grado di dire cosa sta davvero cambiando, cosa non sarà mai più come prima e cosa ci attende.

Le stragi di Parigi che hanno costellato questo terribile 2015 ormai al termine conferiscono ai suoi ultimi studi un carattere drammaticamente profetico. Mai come oggi è apparso così chiaro che dietro la facciata dell’antisionismo si nasconde la minaccia di un antisemitismo bestiale ed estremamente pericoloso, una minaccia non solo allo Stato di Israele, ma all’ebraismo nel suo insieme.

È vero, c’è un continente sommerso che comincia a emergere sotto i nostri piedi. Questo 2015 si era aperto a gennaio sotto il segno della compassione per le vittime delle stragi nella redazione di Charlie Hebdo e con la riaffermazione dell’ideale europeo della libertà di pensiero…

Una reazione inadeguata? Ingenua?

Evidentemente, come hanno dimostrato le stragi di novembre. Non ci siamo trovati di fronte a forze che minacciassero esclusivamente la libertà di pensiero o la sicurezza delle persone coinvolte, ma di un vero e proprio atto di guerra contro la società francese. Ci siamo ingannati riguardo alla natura di quello che sta avvenendo e la compassione, la reazione che poggia sulla sensibilità e i buoni sentimenti, non possono bastare. Oggi quella stessa compassione che passa attraverso l’emozionalità collettiva manifesta non solo la propria inadeguatezza, ma anche un effetto fortemente depressivo. Forse per la società formata dall’ideologia dominante, il postmodernismo, la realtà è troppo dura per essere conosciuta. E il sogno in qualche modo deve continuare. Ma mi domando cosa succederà la prossima volta. Se basterà ancora la compassione.

Oggi anche il governo parla di guerra. Ma di che guerra si tratta?

Questo non è stato ancora chiarito. Certo non è una guerra tradizionale. Nel momento in cui si valuta che in Francia esistano 12 mila cittadini candidati alla Jihad, forse possiamo piuttosto pensare che si tratti di una guerra civile, che il nemico sia in casa. È un nemico che vive fra noi e che sfrutta tutte le possibilità che una società aperta come la società europea può offrire. E le massicce operazioni di polizia che si sono svolte nelle scorse settimane si sono rivelate molto impressionanti.

Perché?

Perché rivelano che tutto questo fino a ieri non era stato fatto. Così come non si sono volute vedere le aggressioni antisemite che si ripetono. Se si fosse intervenuti con forza e tempestività forse molti drammi non sarebbero accaduti.

La soluzione allora è in una limitazione delle libertà civili, della democrazia?

No. La democrazia non deve mai arretrare per far fronte a questa minaccia. Il primo lavoro da compiere è sulla coscienza, sulla consapevolezza. Il grande rischio è pensare che sia possibile liquidare Daesh senza interpretare cosa si muove.

Se siamo in guerra sarà più urgente difendersi, vincere.

Per un sociologo il passo fondamentale è ascoltare e interpretare. Anche quello che dice un pazzo ha un valore, certo patologico, ma fondamentale. Il movimento dello stato islamico e del terrorismo islamico non è solo un’accozzaglia di mostri e di malfattori. C’è un’ideologia, un continuo riferimento al Corano dietro a queste azioni.

Ma per noi questo cosa cambia?

Il mondo musulmano non si è ancora sufficientemente espresso, non si è manifestato per smentire queste letture del Corano. Le stesse citazioni che servono per promuovere il terrorismo, come le si dovrebbe leggere in altro modo? Ce lo devono spiegare. E nel frattempo la società francese non ha saputo aiutare la componente musulmana. Mentre è evidentemente in corso una guerra di religione in terna a questo mondo.

Cosa possiamo attenderci?

Un forte risveglio dell’identità cristiana, la sola probabilmente in grado di far fronte all’emergenza. Sembra strano a dirsi, perché viviamo ormai in una società postcristiana, ma l’attacco che il nostro mondo sta subendo ci mette in questa posizione. E se ne vedono già i primi segni.

Dove, quali?

Un’alleanza fra gli ortodossi russi e i protestanti americani, fra Mosca e Washington. Non per obbedire a un’ideologia, ma per atavismo. Per istinto di conservazione.

E il ruolo ebraico, quello di Israele? È solo quello di fare da bersaglio all’odio?

L’odio nei confronti degli ebrei e di Israele ha una profonda motivazione teologica. Israele è il laboratorio d’Europa su un fronte terribilmente difficile, ma l’Europa ha sempre preferito non capirlo. Dobbiamo prenderne atto senza farci illusioni. E la reazione alla strage di gennaio all’HyperCacher non sarebbe stata la stessa se non fosse avvenuta contestualmente agli altri fatti che hanno contraddistinto quelle giornate. Basta vedere come ancora oggi si cerchi di far passare impunemente l’idea che l’esistenza di coloni ebrei possa giustificare o anche solo spiegare la violenza. Basta vedere come le cronache degli accoltellamenti nei confronti di civili israeliani innocenti siano sempre presentate in maniera bizzarra e senza una chiara distinzione delle responsabilità degli aggressori. Per chi come me viene da una famiglia originaria dalla sponda mediterranea dell’Africa settentrionale cosa significano queste aggressioni a coltellate è ben chiaro. Così come il significato delle decapitazioni e dei sacrifici rituali.

Da una reazione ai fatti di Parigi non discenderà quindi automaticamente una migliore comprensione delle sofferenze della popolazione ebraica vittima del terrorismo?

Non necessariamente. E nemmeno probabilmente, se i fattori non cambieranno. L’iscrizione dell’antisemitismo nel quadro del terrorismo costituisce il passaggio fondamentale. Così come non è più lecito, non è più possibile l’ambiguità di distinguere in qualche modo l’antisionismo dall’antisemitismo.

Quali prospettive, in futuro?

Bisogna innanzitutto capire che il problema della sicurezza è solo un aspetto del problema. L’identità ebraica europea che abbiamo conosciuto si è formata dopo la Seconda guerra mondiale e si è formata nel quadro delle identità nazionali europee. Con la crisi, forse la fine delle identità nazionali, l’identità ebraica non ha più punti di riferimento. Alla ritirata, forse la fine, degli stati nazionali ha fatto fronte una massiccia immigrazione islamica. Il quadro che abbiamo conosciuto dal 1945 alla fine degli anni ’80 è ora in pieno disfacimento. Non sappiamo se e come il collettivo ebraico sarà in grado di sviluppare un nuovo modello. Quello che è certo è che fino a ieri ci siamo definiti in quanto ebrei addossandoci all’identità nazionale e oggi non è più possibile. Da componente essenziale dell’identità nazionale rischiamo di essere tramutati in una minoranza tollerata.

Solo una teoria sociopolitica oppure il riscontro dei primi fatti concreti?

Il lavoro per esempio del legislatore europeo che tenta di regolamentare la pratica della circoncisione produce effetti sociologicamente catastrofici e intollerabili. Questo atto sarebbe ora una concessione, una deroga che ci viene assegnata a partire dal fatto che la concezione di base consiste nell’idea che la circoncisione costituisca di per sé la violazione dei diritti di un minore. Attraverso questi processi prende forma una nuova collocazione dell’ebraismo nel quadro delle minoranze ammesse e tollerate e un suo sradicamento dall’identità originaria nazionale.

In queste grandi mutazioni cosa abbiamo da guadagnarci?

In questo quadro gli ebrei, in Europa e nel mondo, hanno tutto da perdere. La dissoluzione degli Stati nazionali e il ritorno degli imperi non sono una buona notizia, perché è proprio nell’iscrizione nel quadro identitario degli Stati nazionali che la presenza ebraica può trovare la migliore protezione e il più stabile riconoscimento.

Gli imperi sono di ritorno?

Questo è ovvio, è sotto gli occhi di tutti. Che cos’altro sarebbe Putin? E anche l’Unione europea è il processo di formazione di un impero, per quanto contraddittorio e minacciato dall’esterno. In un sistema imperiale la presenza ebraica può essere forse tollerata, ma deve comunque essere ridefinita.

Che scelte ci attendono, in definitiva?

Si stanno muovendo forze macrosociali gigantesche. Gli ebrei sono un piccolo, piccolissimo gruppo sociale, non sono in grado di condizionare gli eventi. Ma dovranno per sopravvivere in ogni caso ridefinire la propria presenza.

Su questo orizzonte che va sgretolandosi, la leadership ebraica avrebbe dovuto prendere strade differenti?

Sono stati commessi gravissimi errori di cui certamente pagheremo le conseguenze. Puntare su una concezione enfatica e istituzionalizzata della Memoria della Shoah. In pratica su una concezione retorica e vittimistica che costituisce anche una pessima difesa dello Stato di Israele. Aprire il credito di un dialogo con il mondo islamico senza mettere le carte sul tavolo di un chiarimento preliminare necessario. Rinunciare ad aprire un contenzioso sulle persecuzioni e lo sradicamento delle popolazioni ebraiche dai paesi mediterranei. Concepire i disastrosi accordi di Oslo come una resa, la supplica di essere riconosciuti e la mancanza di coraggio di giocare il ruolo difficile e sgradevole, ma inevitabile, di una parte che ha superato l’aggressione vincendo un conflitto voluto da altri. Pretendere di iscriversi nella Storia come vittime pone in essere grandi pericoli. Chi in questo scenario che cambia drammaticamente vuole raccogliere oggi la sfida di reinventare la presenza ebraica nel mondo e di reinventare Israele dovrà tenerne conto. O rassegnarsi al peggio.

(da Pagine Ebraiche, gennaio 2016)