8 Dicembre 2016

Sven Felix Kallerhoff, Il libro proibito di Hitler, Rizzoli

Fonte:

Osservatorio antisemitismo

Autore:

Alberto De Antoni

Il libro proibito di Hitler

Nei 264 giorni che trascorse nel carcere di Landsberg in seguito al fallito Putsch di Monaco del 1924 Hitler dettò Mein Kampf, un libro che acquisì fama e diffusione solo in un secondo momento grazie al successo politico del suo autore. Un cosiddetto “Secondo libro” di Hitler (Hitlers zweite Buch. Eine Dokument aus dem Jahr 1928, a cura di G.L. Weinberg, Stuttgart 1961), rintracciato negli archivi statunitensi nel 1958 e tradotto in Italia nel 1962 (Il libro segreto di Hitler, Longanesi), non viene preso in considerazione da parte degli studiosi se non come abbozzo di un lavoro mai concluso o come ripetizione dei contenuti del primo. Mein Kampf resta perciò uno dei punti di partenza, accanto alle biografie hitleriane, per la comprensione più profonda del nazismo dal momento che, com’è noto, movimento politico, ideologia, governo e biografia si concentrarono in un’unica persona: se non ci fosse stato Hitler non ci sarebbe stato il nazismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Mein Kampf fu messo al bando in Germania, vietato anche nelle biblioteche pubbliche, sopravvivendo solo nelle librerie antiquarie o in traduzione nel circuito di case editrici gravitanti nell’estrema destra mondiale o in quelle Nazioni, come quelle arabe ad es., che avevano interesse nella sua circolazione in chiave anti-israeliana.

Di recente si è tornati a parlarne in occasione della pubblicazione in Germania di una rigorosa edizione critica a opera del governo bavarese, titolare dei diritti d’autore (Mein Kampf. Eine kritische Edition, a cura di Chr. Hartmann et alii, München-Berlin 2016, pp. 2000 circa, pubblicato dall’Institut für Zeitgeschichte) e in seguito a una cinica quanto improvvida operazione commerciale compiuta da un quotidiano nazionale italiano. Operazione peraltro maldestra, a dir poco, dal momento che il testo proposto altro non era che l’edizione ridotta e rielaborata dal fascismo al momento dell’alleanza con la Germania nazista e che già nel 2002 una traduzione integrale era già apparsa nelle librerie italiane (Il “Mein Kampf” di Hitler. Le radici delle barbarie naziste, a cura di G. Galli, ed. Kaos).

Molto è stato scritto in suo proposito, ma due commenti ricorrono soventi nella critica: mai nessun libro fu sottovalutato e mai nessun libro fu meno letto come questo. Il primo giudizio si spiega con l’attuazione di programmi politici bellici e omicidi già contenuti nel testo, il secondo per l’estrema prolissicità di un libro tutt’altro che lineare nella sua esposizione e nella sua chiarezza sintattica. Non c’è mai stata alcuna ragione per allontanarsi dall’opinione comune. Un recente studio, appena tradotto in italiano per Rizzoli (Il libro proibito di Hitler, pp. 356; ed. or., Mein Kampf. Die Karriere eines deutschen Buches, Stuttgart 2015), obbliga però a soffermarsi brevemente sul suo contenuto. L’autore, Sven F. Kellerhoff, giornalista già autore di studi storici-culturali e collaboratore di testate giornalistiche di rilevanza nazionale, ha scritto difatti un saggio molto intelligente. Se non altro evita la lettura di testo altrimenti indigeribile per forma e per contenuto già per lo stesso pubblico tedesco. Sotto questo punto di vista risulta particolarmente apprezzabile, nel testo critico, il rilievo dato ad alcuni periodi particolarmente involuti, contradditori o zeppi di iperbole retoriche di facile effetto in un libro che pure aveva avuto una revisione critica al momento della pubblicazione.

Al di là di queste osservazioni di stile, il recente studio si segnala per due ordini di motivazioni. In primo luogo, riassume tutte le vicende editoriali, le ristampe e i numeri delle vendite ponendo dei punti fermi nella ricostruzione della circolazione del testo. Si scopre così che Mein Kampf fu ampiamente letto e che solo il processo di rimozione presente nella Germania del dopoguerra – e certamente anche una notevole dose d’imbarazzo da parte dei lettori – ha impedito che se ne parlasse apertamente.

Ben più interessanti le osservazioni in merito al contenuto. Mein Kampf, di oltre 700 pagine, si compone di due parti nettamente delineate: la prima autobiografica, la seconda ideologica. Della prima non molto si può aggiungere a quanto stabilito da tempo dai principali biografi a proposito di un politico dal passato oscuro che, in prigione e in previsione di un rientro nella vita pubblica, aveva rielaborato tutti i passi della propria vita in nome di un idealismo nazionalistico. Di fatto, fino al 1919, anno del primo intervento politico, peraltro già con tema antisemita, di Hitler non si sa granché e quelle poche informazioni a noi note devono essere vagliate con molto scetticismo. Si era già mossa lungo questa linea la giornalista austriaca Brigitte Hamann alcuni anni orsono col suo Hitlers Wien. Leherjahre eines Dikators, München 1996 (trad. it., Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Tea 2001) con lo scopo neanche troppo nascosto di allontanare dalla propria Nazione la responsabilità di aver formato culturalmente Hitler. Ciò non toglie che il libro fosse ben articolato e le ricerche molto accurate. A queste, se mai, si aggiungono quelle addotte da Kellerhoff, in particolare, tra le molte, quella relativa all’esperienza al fronte nella I Guerra Mondiale che fu meno eroica di quanto millantato dalla propaganda nazista. Ci si trova perciò sempre di più dinanzi a quella “non persona” delineata da Joachim Fest, uno dei primi biografi tedeschi, ovvero a un essere umano del tutto privo di una vita privata, coincidente al contrario in tutto e per tutto con la vita pubblica, una sorta di monade psicopatica rinchiusa in una corazza di odio e di brutalità.

A ragione di ciò acquista maggior valore la seconda parte di Mein Kampf, davvero sottovalutato ancora oggi e non analizzato fino in fondo per la comprensione di alcuni tratti del fenomeno “nazismo”. Il suo contenuto è certamente un volgare rassemblement di tematiche ricorrenti nelle  conversazioni popolari politiche e culturali dell’epoca, a tal punto che è veramente difficile stabilire dove inizino e dove finiscano le idee dell’autore. E in questo senso è stato interpretato dalla maggior parte dei commentatori. Ci si trova dinanzi, in sostanza, a quel “non autore” formulato da Michel Foucault che, in ben altro contesto, aveva sostenuto la scomparsa del soggetto a discapito dell’esistenza dei soli documenti che hanno prodotto un testo. In altre parole, non esiste nessuna differenza tra l’autore e il lettore, essendo se mai il libro proprio testimonianza di  una di quelle rare circostanze storiche – e proprio per questo degne di nota – in cui il comportamento collettivo diventa forza motrice degli eventi e trova in se stessa, tramite i più spregiudicati portavoce, i propri leader. Si tratta però anche di un fenomeno che rompe qualsiasi forma di mediazione culturale e di convivenza etica a discapito di un organismo primitivo “la massa” che alcuni studiosi d’inizio secolo avevano scorto nei grandi regroupement delle folle anonime delle metropoli moderne, forse ancora non ben compresa nei suoi elementi strutturali.

L’autore di Mein Kampf si muove proprio all’interno di questo “corpaccio” – come ben descrisse Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi – pronto a esercitare la violenza come unico strumento di comunicazione sociale e politica. Qualche commentatore particolarmente acuto aveva intravisto ciò nel gran profluvio di parole del libro e aveva a buon ragione scritto: «…ciò di cui in definitiva ha bisogno per raggiungere il suo scopo: la massa» e «[L’autore] ha un solo istinto, quello dell’assoggettamento degli esseri umani. Forse li disprezza tutti» (p. 137), mentre un altro critico trovò rilevante la tecnica di manipolazione delle masse (p. 149). Degna di nota anche l’osservazione di un ultimo critico infine a proposito dell’ossessione demografica di Hitler (p. 172), un tratto che non può non rimandare sia all’odio nazista verso il popoloso ebraismo europeo orientale sia agli esperimenti di Josef Mengele compiuti sui gemelli ad Auschwitz e volti alla moltiplicazione della “razza” ariana. Difficile non cogliere in tutti questi rilievi un nesso con alcuni dei contenuti di Massa e potere di Elias Canetti, un saggio frutto di trent’anni di studio, che molto potrebbe suggerire per la comprensione del comportamento apparentemente irrazionale – a tal punto da apparire anche suicida – delle masse nel periodo dei totalitarismi fascisti e, lato sensu, dell’opinione pubblica, come anche quella contemporanea, quando, lasciata in balia di se stessa senza alcuna leadership responsabile o un filtro ideologico politicamente ben organizzato, si muove all’interno di comportamenti facilmente strumentalizzabili.