16 Marzo 2022

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC, spiega i contenuti giudeofobici di un articolo sulla guerra di invasione in atto in Ucraina

Fonte:

Moked.it

Autore:

Gadi Luzzatto Voghera

Cattivo giornalismo

Nella foga della ricerca di esperti di strategia militare e diplomatica che ci aiutino a comprendere la guerra di invasione in atto in Ucraina e le sue conseguenze geopolitiche, i giornali non vanno tanto per il sottile e a volte interpellano le persone sbagliate. Mi sembra questo il caso del lungo articolo pubblicato il 15 marzo su “Il Fatto Quotidiano” dal generale Fabio Mini. Il tema proposto è un’analisi del tentativo diplomatico attuato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett che è volato in missione a Mosca dopo aver concordato l’azione con i Paesi dell’Alleanza Atlantica. Da un generale pluridecorato, che ha guidato in passato le forze NATO e la missione interforze in Kosovo, ci si attenderebbe una descrizione esperta di scenari politici e militari con ipotesi puntuali che aiutino i lettori a fare chiarezza su una situazione che appare assai complessa. E invece no, il generale Mini sceglie di dedicare gran parte dell’articolo a spiegarci che Israele in quanto “Stato ebraico” (le virgolette sono sue) è la patria ideale di tutti gli ebrei “compresi i grandi banchieri che ostentano la visione galattica del potere”. A questa affermazione già di per sé sorprendente per la sua acutezza (è noto a tutti, infatti, che per definizione i banchieri sono ebrei), segue l’indicazione della presenza in Russia di una comunità ebraica “molto forte”. E naturalmente anche in America la comunità ebraica è “importante e soprattutto forte nell’ambito dell’Amministrazione centrale, a prescindere dal partito del presidente di turno”. Il generale ci svela quindi che i figli di Biden si sono sposati con coniugi ebrei (evidente elemento esplicativo delle profonde dinamiche diplomatiche in atto) e ci rende manifesto un lungo elenco di esponenti di rilievo dell’Amministrazione USA che sarebbero tutti ebrei. Come peraltro il presidente dell’Ucraina. Il generale Mini è sufficientemente prudente da non scendere nella trivialità dei messaggi social che anche nel caso del conflitto in Ucraina attribuiscono tutte le colpe a un complotto ebraico, ma la sostanza della sua retorica giornalistica non cambia. Bennett, premier di uno “Stato ebraico” (con virgolette!) emerge dall’articolo come il mediatore ideale perché in pratica i protagonisti di tutta questa faccenda – da una parte e dall’altra – sono ebrei, partecipi di un disegno che una sua qualche coerenza interna dovrà pur averla.

Sarebbe molto semplice fare ironia sulla struttura semantica di questo brutto episodio di giornalismo. La distorsione delle notizie, la manipolazione del messaggio ben leggibile fra le righe, non aiutano in nulla a spiegare al lettore la complessità di quanto avviene in Ucraina e nella diplomazia che si muove attorno alla guerra e inoculano messaggi fuorvianti e distanti dalla realtà. Purtroppo, però, corre l’obbligo di segnalare ai lettori di quel quotidiano e al suo direttore (che forse dovrebbe saperlo) che il generale Mini è membro del comitato scientifico della rivista “Eurasia”, diretta dall’editore Claudio Mutti che è fra le firme più note dell’antisemitismo militante di casa nostra.

A noi che studiamo l’antisemitismo e ne sondiamo le dinamiche nella società contemporanea, piacerebbe che si ponesse maggior attenzione quando ci si occupa in maniera professionale di informazione nel veicolare messaggi che possono avere ricadute pericolose sulla nostra convivenza civile. Parliamo, purtroppo, per esperienza. In Italia ci siamo già passati e sappiamo com’è andata a finire. Uno dei messaggi più espliciti del linguaggio antisemita è da molti secoli quello che disegna gli ebrei con alcune caratteristiche negative pericolose. Essi sarebbero un gruppo omogeneo, che occupa le leve del potere, che si muove seguendo un disegno globale di conquista, che detiene il potere finanziario. Non importa che gli ebrei siano – nella realtà – ben altro. Non importa, ad esempio, che il premier di Israele Naftali Bennett sia presidente protempore di un governo di coalizione disunito e che ha una maggioranza risicatissima in parlamento, governo che è stato l’esito di diverse elezioni politiche andate clamorosamente a vuoto. Non importa che il 25% della popolazione di Israele viva sotto la soglia di povertà (un evidente segno di dominio finanziario). Né interessa agli alfieri della retorica antisemita il fatto che essere ebrei non ha alcuna relazione con le scelte politiche che ogni essere umano compie in autonomia e coscienza. Tutto ciò è irrilevante. Quella retorica necessita di un’icona negativa chiara che sia immediatamente percepibile e che vada a pescare nei pregiudizi più profondi. Quindi gli “ebrei ricchi” vanno bene, come pure gli “ebrei solidali fra loro”, e ancora gli “ebrei minacciosi”.

In un Paese come il nostro, che investe risorse intellettuali e anche economiche per varare una strategia nazionale di contrasto all’antisemitismo, che istituisce una commissione parlamentare che si occupa di linguaggio d’odio, che è impegnato nella costruzione  di un museo nazionale dell’ebraismo italiano che racconta a tutti noi gli ebrei reali e il loro ruolo nella bimillenaria storia della civiltà di questa Penisola, assistere a questi esempi di disinformazione tanto evidente quanto imbarazzante provoca un certo sconforto e non poca amarezza. E non poco allarme, in un mondo dell’informazione sempre meno attento alla verifica dei fatti, e sempre più propenso a fare confusione fra notizie e propaganda.