5 Giugno 2020

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore della Fondazione CDEC, riflette sul nuovo saggio di David Bidussa “La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948”, Solferino, Milano, 2020

Fonte:

Moked.it

Autore:

Gadi Luzzatto Voghera

Chiesa e modernità

Il recente testo di David Bidussa, La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948 (Solferino, 2020), merita qualche considerazione per svariati motivi. Si tratta di un testo che incrocia molti piani e diversi saperi che non sempre sono controllati da una storiografia che si è fatta in questi ultimi decenni sempre più specialistica e settoriale, con la creazione di micro-nicchie nelle quali spesso queste pagine entrano senza chiedere permesso. Prendiamo le mosse dalla cronologia, innovativa e ampiamente comprensibile. Non corrisponde a quella del pontificato di Pio XII, non è quella del nazismo, non è quella della guerra e neppure quella del sionismo o dell’antisemitismo (che a sua volta soffre di cronologia incerta). La scelta è nettamente incentrata sull’Autorità che ha generato la fonte archivistica che ha mosso la stesura del libro. Due encicliche a segnare una stagione di difficoltà e resistenze che la Chiesa ha attraversato nell’inquadrare e poi nel gestire il suo sguardo e il suo agire nei confronti dei totalitarismi emergenti in Europa. Se Giovanni Miccoli parlava (scegliendo estremi cronologici assai più ampi) di “genealogia degli errori del mondo moderno” come metro su cui la Chiesa ha misurato il suo rapporto con la politica contemporanea, Bidussa sceglie di introdurre l’antisemitismo e i suoi linguaggi (in particolare il complotto) come strumento per leggere quelle stesse difficoltà e resistenze. In questo modo viene introdotto a mio parere un elemento significativo: l’antisemitismo non sarebbe un effetto collaterale delle dinamiche storiche del secolo breve, ma una componente strutturale con la quale lo storico è chiamato a misurarsi, compiendo innanzitutto uno sforzo di conoscenza. Ebrei, sionisti, rabbini, nelle diverse forme di popolazione sterminata, intraprendente avanguardia colonizzatrice, componente filobolscevica e altro ancora non sono più esterni alla Storia (volutamente maiuscola), ma parte dell’immaginario proposto anche in ambienti insospettabili come quelli della Curia romana.

Ma la carica innovativa del libro non si esaurisce qui. Il secondo elemento che colpisce è la sapienza dell’archivista che si fa storico (e ci si legge tanto Claudio Pavone…). È forte e giustificato il richiamo a connettere strutturalmente il documento – che si tratti di un’enciclica o di una lettera confidenziale – con una dinamica di lungo periodo che va sottratta al momento contingente. Qui la lezione è assai utile ai tanti improvvisati giornalisti che si fanno storici e che producono volumi nei quali in maniera sistematica riversano l’emergenza, l’urgenza della “notizia” e dello “scoop”, senza tener conto di un elemento essenziale e necessario nel guardare alla storia, e cioè il tempo. Una coordinata che per la Chiesa ha una valenza doppia perché non si tratta di un’istituzione che sia misurabile nelle sue scelte rimanendo legati all’istante storico, ma va valutata nel lunghissimo periodo e tenendo conto di un linguaggio particolare, fatto di allusioni e sottili riferimenti spesso nascosti. Le fonti della Chiesa parlano in quel modo scarsamente esplicito, e solo leggendole in trasparenza e con attenzione si può sperare di interpretarle in maniera corretta senza travisarle. Fatta salva la facoltà di esprimersi e di sottolineare la natura più o meno edificante di certe dinamiche adottate dalle gerarchie ecclesiastiche.

Terzo elemento che mi sembra fondamentale è l’identificazione di alcuni terreni “rivelatori” che spesso sono esclusi dall’analisi storiografica e simbolica che definisce il ruolo della Chiesa nella storia europea (poi mondiale) del Novecento. Le scelte geografiche che Bidussa propone al lettore ci dicono intanto che l’apertura dell’archivio segreto vaticano non riguarda solo Pio XII, ma la Chiesa per intero. Nel primo caso il tutto si risolverebbe infatti solo in una operazione strumentale all’elevazione agli altari di quel pontefice (ultimo assente nelle beatificazioni novecentesche, un vuoto molto ingombrante). E invece ci si lancia correttamente in una prospettiva diacronica e geograficamente ampia, nella quale ricadono le gerarchie e diversi papi. Oltre alla Germania (terreno ben conosciuto da Pacelli prima di divenire pontefice), ci sono la Spagna (sempre troppo trascurata, con una guerra civile traumatica per l’intera Chiesa), l’Ungheria, gli Stati Uniti, la Croazia, la Palestina e la Polonia (e l’Austria, che meriterebbe tutto un lavoro a parte).

Un volume importante, quindi, ricco di documentazione in parte inedita, letta in una prospettiva fortemente innovativa.