Fonte:
Reset
Autore:
Alessandra Tommasi
l blogger di origine saudita, sostenitore della normalizzazione dei Paesi arabi con Israele, parla con Reset DOC di Hamas, antisemitismo e del perché la pace a Gaza non possa iniziare senza una nuova leadership palestinese.
“Mi onora essere chiamato ‘normalizzatore’ dai sostenitori dei Fratelli Musulmani”. Così risponde Loay Alshareef, blogger saudita trapiantato a Dubai, agli attacchi che riceve dal mondo arabo, dove, per molti, parlare del riconoscimento di Israele resta ancora un tabù. Musulmano praticante, Alshareef non teme lo scontro: si definisce “sionista” e rivendica gli Accordi di Abramo come un’opportunità storica, non un tradimento della causa palestinese. L’11 giugno è intervenuto a Bologna in una tavola rotonda contro l’antisemitismo: lì lo ha incontrato Reset per raccogliere il suo punto di vista sulla guerra in corso a Gaza.
Dopo il 7 ottobre, abbiamo assistito a un’ondata globale di atti e retorica antisemiti. Dal suo punto di vista, cosa è cambiato, in particolare nel mondo arabo?
Molto è cambiato. Sempre più persone – sebbene troppo tardi – hanno riconosciuto il 7 ottobre per ciò che è stato: un attacco terroristico. Solo pochi giorni fa, uno degli islamisti più noti del Kuwait, Abdullah al-Nafisi, ha dichiarato pubblicamente di aver detto ai vertici di Hamas che la loro operazione è stata una “avventura”, qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere (In una recente intervista con Al Jazeera Arabic, al-Nafisi ha affermato di avere “forti riserve” sull’operazione Diluvio di Al-Aqsa, Ndr). È un segnale. Oggi gli islamisti vengono guardati con crescente scetticismo nel mondo arabo. Personalmente, spero che questa sia l’ultima guerra nella regione e che, inshallah, entreremo in un’era di pace.
C’è spazio nel mondo arabo per un discorso pubblico che sia empatico verso i civili palestinesi ma critico verso Hamas?
Sì, anche se resta limitato, quello spazio sta crescendo. Molti arabi e musulmani – me incluso – provano solidarietà per quanto accade a Gaza. Ma la colpa, e la pressione, andrebbero rivolte a chi questa guerra l’ha iniziata. Israele non ha iniziato il conflitto, né lo ha voluto. In quale precedente storico si chiede alla parte che non ha scatenato una guerra di essere la prima a fermarla? Se Hamas liberasse gli ostaggi e deponesse le armi, la guerra potrebbe finire già domani.
Perché, secondo lei, è ancora così difficile ammettere che Hamas danneggia anche i palestinesi?
Molti nel mondo arabo e musulmano hanno paura di Hamas. Non dimentichiamo che Hamas è un gruppo islamista radicale con metodi da organizzazione mafiosa: persegue i suoi nemici, li elimina. Non biasimo chi, semplicemente, vuole lavorare e mantenere la propria famiglia. Ma anche chi resta in silenzio sa chi è Hamas. Il problema più profondo è la paura, rafforzata da oltre settant’anni di disinformazione e propaganda: una narrazione che non può essere smontata dall’oggi al domani. Ma va affrontata e decostruita.
Oggi le critiche a Israele vengono spesso etichettate rapidamente come antisemitismo, soprattutto nel discorso internazionale. È ancora possibile distinguere chiaramente tra le due cose?
Criticare un governo – incluso quello israeliano – è legittimo. Ma nel mondo arabo, quello che passa per “critica a Israele” è spesso, in realtà, un appello alla sua cancellazione Se ti opponi a un determinato governo ma riconosci il diritto di Israele a esistere come Stato, non è antisemitismo. Ma se la tua posizione parte dal presupposto che Israele non debba esistere affatto, allora sì: è antisemitismo, senza mezzi termini.
Come si può tracciare una linea più netta, soprattutto nei media e nel dibattito pubblico?
La linea è semplice: la critica non dovrebbe mai equivalere a invocare la cancellazione dell’unico Stato ebraico al mondo. Eppure, in gran parte del mondo arabo, è proprio quello che succede. Si dice: “Guardate cosa fa Israele”, e la soluzione proposta è smantellare lo Stato. Sarebbe come dire che il Pakistan dovrebbe essere abolito a causa dei suoi problemi interni. Pakistan e Israele sono entrambi nati nel 1947 – Israele in realtà è “rinato”, data la sua storia antica. Posso avere forti critiche verso il Pakistan, ma non ne chiederei mai la scomparsa. Lo stesso principio dovrebbe valere per Israele.
In passato ha definito gli Accordi di Abramo una “speranza” per la regione. Alla luce della guerra in corso, li considera ancora tali?
Assolutamente sì. Le faccio un esempio: dall’inizio della guerra, circa il 42 per cento degli aiuti umanitari entrati a Gaza è arrivato dagli Emirati Arabi Uniti. Perché? Perché gli Emirati hanno stabilito la pace con Israele. E quella pace – resa possibile proprio dagli Accordi di Abramo – ha permesso la cooperazione per far arrivare gli aiuti e costruire un ospedale da campo. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza relazioni diplomatiche. Gli Accordi hanno aiutato i civili palestinesi, non Hamas. Hanno gettato le basi per un futuro più promettente, anche se ora quel cammino è più difficile. Non credo che ci sarà uno Stato palestinese. Ma la pace resta essenziale. Questa guerra deve finire, con il rilascio degli ostaggi e la resa di Hamas.
Dunque non crede più nella possibilità di uno Stato palestinese?
Uno Stato palestinese non può venire prima. Sarebbe un errore nelle condizioni attuali. La priorità deve essere la costruzione di una leadership palestinese credibile, che accetti tre principi fondamentali: primo, il riconoscimento del diritto dello Stato ebraico a esistere; secondo, la disponibilità a convivere pacificamente con Israele; terzo, l’impegno a smettere di insegnare l’odio ai bambini. Se emergesse una leadership simile, sono convinto che molti israeliani scenderebbero in piazza per sostenere una soluzione a due Stati. Ma oggi, né Hamas né la corrotta Autorità Palestinese rispondono a questi requisiti.
Passando alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita: i funzionari sauditi hanno detto che non riconosceranno Israele senza uno Stato palestinese. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha condannato la situazione a Gaza in quanto una forma di “genocidio collettivo”. Cosa ne pensa?
Il principe ereditario ha chiesto una roadmap irreversibile verso uno Stato palestinese. È una posizione giusta e diplomatica. È il leader del Paese musulmano più importante al mondo, e credo sia un uomo di pace. Confido nel suo impegno a trovare una soluzione. Non posso parlare a suo nome, ma da ciò che so – e dalle persone a lui vicine – ha sia l’intenzione sia la capacità di spingere la regione verso la pace.
Quando e come potrebbe essere superato lo stallo?
Tre mesi fa nessuno avrebbe immaginato che Mohammed bin Salman potesse contribuire ai progressi in Siria, eppure ci è riuscito È un leader con un grande peso politico e credo possa giocare un ruolo chiave anche per i palestinesi. Prima del 7 ottobre, molti risultati erano a portata di mano. Quell’attacco ha fatto deragliare tutto.
Alla luce della devastazione a Gaza, delle sofferenze civili – oltre 55.000 morti – e delle accuse di attacchi indiscriminati e crimini di guerra, come valuta la condotta di Israele in questa guerra?
È una guerra orribile. Ma dobbiamo tornare al 6 ottobre. C’era un cessate il fuoco, non c’erano ostilità in corso. Poi Hamas ha lanciato un attacco brutale, uccidendo 1.200 civili – molti a un festival musicale, altri nelle loro case. E lo ha perfino filmato. Non intendo giustificare ogni azione compiuta dall’esercito israeliano. Ma questa guerra sarebbe potuta finire già ieri, se Hamas si fosse arreso. La colpa va attribuita ad Hamas, non alle forze di difesa israeliane.
Cosa direbbe a un giovane arabo e a un giovane israeliano che crescono oggi in mezzo alla polarizzazione, alla violenza e all’odio online?
Imparate dall’Europa. Ora siamo in Italia. Durante l’occupazione nazista, la Grande Sinagoga di Roma portava un sigillo imposto dai tedeschi e rimosso in seguito dai liberatori americani. Questo continente ha conosciuto orrori indicibili. Eppure oggi si può viaggiare da Roma a Milano, Parigi, Amsterdam e Berlino senza confini. Ora c’è un’ambasciata israeliana a Berlino – e una tedesca in Israele. Questo mi dà speranza. Le società civili evolvono: imparano dal passato, cambiano rotta, e costruiscono la pace per le generazioni future. Anche noi dovremmo fare lo stesso.