1 Agosto 2017

Destra radicale

Fonte:

www.doppiozero.com

Autore:

Claudio Vercelli

Né destra né sinistra, semmai peggio

Sulla opportunità e la pertinenza rispetto agli umori dei tempi correnti della proposta di legge Fiano, intesa a identificare, colpire e reprimere le manifestazioni di «propaganda» del fascismo nella società italiana, soprattutto «se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici ed informatici», si può discutere a lungo. Rimane il riscontro che, in questa estate confusa e riottosa, laddove ancora una volta la politica sembra precipitare in una condizione di latitanza o comunque di vuoto pneumatico, mentre il nostro Paese, specchio mediterraneo del Continente, cova tensioni e rancori irrisolti, il ripetersi di espressioni di identitarismo fascista, laddove l’orgoglio di una appartenenza si maschera come «libertà di opinione», solleva molte inquietudini. Ci sono i precedenti penali e repressivi delle leggi Mancino e Scelba.

Ma c’è anche il timore, come già è avvenuto con la discussione sul caso del negazionismo, che si ingeneri una specie di eterogenesi dei fini, per la quale la sanzione penale (peraltro di non facile applicabilità in un nazione che ha un corpus legislativo in perenne superfetazione accompagnato da notevoli incongruità e arbitrarietà nella sua traduzione in atti concreti) potrebbe creare casi di sedicenti perseguitati. Qualcuno, risalendo ancora più indietro, ha evocato, per l’ennesima volta, la questione dell’«amnistia Togliatti» del 1946 e, prima ancora, il tema della mancata epurazione come indici di debolezza della nuova classe dirigente postfascista nei confronti del regime e dei suoi sostenitori. Anche da ciò, ovvero da una clemenza che rasenta l’impotenza, sarebbero conseguite, nel corso del tempo per poi arrivare a noi, condotte acquiescenti, se non collusive, con ciò che del mussolinismo e dei suoi epigoni era sopravvissuto alla conclusione del conflitto. Considerazioni, queste ultime, da sempre tirate in ballo nella discussione politica, al netto di tutta una serie di questioni di sostanza, ossia che la società italiana, negli anni del fascismo, era stata spesso legata ai suoi organismi, non importa con quanta convinzione. Il rischio di un’epurazione ad ampio raggio, una defascistizzazione sistematica, che nelle intenzioni dei suoi sostenitori avrebbe dovuto sanare un popolo, un’intera nazione, stava nel dispositivo medesimo della sua estensione, di fatto nullificandola.

Non di meno, rivelava lo scarto esistente tra gli azionisti, legati ad un’idea di radicale rigenerazione morale della collettività, e i comunisti (assai più timidamente, in questo caso, i socialisti) che invece si ponevano come prioritari, dentro un quadro di mutamenti degli assetti istituzionali, sia il problema della continuità amministrativa degli apparati dello Stato non eccessivamente compromessi con il regime mussoliniano sia l’accesso degli italiani ad un sistema di partecipazione politica per più aspetti inedito. Il tutto, va ricordato, nel generarsi di un durissimo bipolarismo intercontinentale. Anche nei decenni successivi, a consolidamento della Repubblica avvenuto, l’ipotesi di mettere fuorilegge il Movimento sociale italiano, diretto erede dell’esperienza neofascista di Salò, ebbe scarso seguito, intuendone i più la difficile applicazioni e i pericolosi ritorni politici. Dinanzi alle provocazioni neofasciste e missine e poi alla «strategia della tensione», furono soltanto alcuni politici, come Ferruccio Parri, a sollevare la questione, rimanendo inascoltati. Per il Partito comunista mettere fuorilegge un’organizzazione politica che aveva una solida base parlamentare e un numeroso seguito di elettori avrebbe comportato un pericoloso precedente. Quel che era considerato alla stregua di vero e proprio avventurismo, motivato più da pulsioni repressive o comunque punitive che da un disegno politico chiaro e sottoscrivibile, poteva infatti prestarsi a pericolosissime estensioni. Una volta innescata una prassi che traduce un problema politico, ancorché radicale, in azione penale, il rischio che esso potesse trasformarsi da strumento di difesa della società libera a suo vincolo, era ben chiaro a diverse tra le forze politiche che avevano partecipato, con i loro esponenti, alla Costituente.

Non si trattava di difendere un’astratta libertà di manifestazione delle idee, a prescindere dai loro riflessi culturali e sociali, ma di perimetrare uno spazio concreto dove il dibattito politico non fosse pregiudicato a priori da veti, tanto più se di natura giuridica quando intrinsecamente intimidatori. L’antifascismo ne derivava quindi come una naturale connotazione del sistema in sé, non come un ingrediente a misura e posologia variabili. Del sistema democratico difendeva le sue radici, che avrebbero dovuto assorbire anche le eventuali deviazioni attraverso il ricorso all’azione politica e all’attuazione del dettato costituzionale. Qualcosa che oggi sembra invece fare difetto ad una sinistra sbiaditamente liberale, già debitrice del tramonto dei modelli socialdemocratici, fortemente individualista, tentata dalla censura nei confronti di ciò che, non riuscendo a definire in termini diversi, derubrica a minaccia da perseguire attraverso il ricorso alla sanzione di natura giurisdizionale. A ulteriore riscontro, basti rammentare che la dodicesima disposizione transitoria e finale della Carta costituzionale, vieta la ricostruzione del Partito nazionale fascista mentre la legge Scelba, la numero 645 del 20 giugno 1952, norma la punizione dell’«apologia di fascismo» in un contesto pubblico. Sulla scorta delle due manifestazioni di volontà normativa, furono disciolte organizzazioni neofasciste di carattere insurrezionale e manifestamente avverse ai principi più elementari della vita democratica.

Nel 1972 la procura della Repubblica di Milano chiese, ed ottenne dalla Camera dei Deputati, l’autorizzazione per procedere contro Giorgio Almirante, segretario del Msi, ipotizzando il reato di ricostituzione del partito fascista. Di fatto, dopo il trasferimento dell’inchiesta a Roma, nulla ne derivò. La peggiore delle soluzioni, a conti fatti, poiché rafforzando in molti democratici l’impressione che effettivamente il partito neofascista costituisse, di per sé, il prosieguo non solo ideale ma anche organizzativo, del vecchio regime e dei suoi epigoni saloini, non dava però seguito alle premesse penalistiche, alimentando invece negli aderenti all’organizzazione missina la convinzione di essere per davvero gli aedi di una formazione politica antisistemica. Una sorta di legittimazione all’incontrario, attraverso la tentata – e abortita – delegittimazione, ovvero una eterogenesi dei fini. Va infine rammentato che sul piano costituzionalistico, l’articolo 21 della Carta fondamentale, difficilmente si presta alla punizione di generici richiami ai trascorsi fascisti, dovendo primariamente tutelare, come garanzie universale, il diritto all’opinione e alle sue manifestazioni, entro i limiti di un dibattito che non può mettere in discussione l’ordinamento democratico ma deve comunque riuscire a contrastare gli atteggiamenti più radicali soprattutto attraverso gli strumenti della politica e della cultura.

In altre parole, perseguire penalmente una condotta in quanto reato non può costituire una scorciatoia rispetto all’afasia e alla paralisi dell’azione politica. Detto questo, rimane il fatto che in Italia il fascismo non torna per il semplice motivo che non se ne è mai andato. Senz’altro il regime politico mussoliniano è ingloriosamente tramontato in ragione di una congiura di palazzo, dopo vent’anni di diretta corresponsabilità da parte delle classi dirigenti “afasciste”, a partire dalla monarchia. Non di meno, la cupa e delirate Repubblica sociale italiana si è accartocciata tragicamente, per poi estinguersi in quanto fantoccio insufflato dal «camerata germanico». Storia vecchia, forse. Ma il calco antropologico del fascismo, la sua funzione pseudo-modernizzante nell’età della nazionalizzazione delle masse, con il loro pieno ingresso nella sfera pubblica in posizione subalterna, non si è mai esaurito. In quanto di impronta si tratta, destinata quindi a sopravvivere alle manifestazioni temporanee del soggetto che l’ha impressa. Certo, non tutto quello che tentiamo di definire, a volte con un eccesso di disinvolta nomenclazione, come «fascismo», risponde ai precisi esiti politici della sua trascorsa espressione storica. La tentazione di rubricare ciò che disgusta e repelle sotto un’unica voce, rischia più di rendere una cortesia a quanto si dice di volere contrastare, estendendone il campo del dominio semantico e simbolico invece che assolvere al ruolo di denuncia. Rimane il fatto che se di un calco si va parlando, allora esso esiste perché alla forma che ci consegna corrispondono delle copie.

In parte o per il tutto, quindi con maggiore o minore aderenza al modello di riferimento. Comunque ad esso riconducibili. E se usiamo il rimando all’antropologia allora ci riferiamo ad un sistema di simbolismi e di segni fortemente radicati. Già Umberto Eco, nel suo discorrere sulle componenti idealtipiche dell’«Ur-fascismo», aveva composto un sistema di falsi valori identificato con il culto della «tradizione»; nel sincretismo ideologico connotato da un’asfissiante inconsistenza teorica a fronte di una devastate propensione ad invadere tutti gli ambiti della vita associata; in una imprescindibile vocazione all’arbitrarietà e all’opportunismo pseudo-culturale; nel camuffamento di un violento bisogno di dominio con il possesso e il deposito di «verità ancestrali», di cui il progetto politico si incaricherebbe esclusivamente di tradurne operativamente l’inderogabilità; nel rifiuto della varietà culturale ma anche nell’esaltazione del scientismo e della tecnologia come elementi neutrali nell’esistenza civile; nel culto dell’azione fine a se stessa, intesa essenzialmente come esibizione vitalistica, dove non si lotta per vivere meglio ma si deve orientare la propria esistenza per la lotta; nella concezione del pluralismo e della critica come di un disaccordo che mina alle basi la continuità dei legami sociali; nell’uso politico della frustrazione e del disagio, indicando come soluzione alle crisi identitarie il riconoscersi in una meta-appartenenza, quella della «nazione etnica»; con l’ossessione paranoide per la storia come complotto, generato da potenze metafisiche, di cui gli ebrei sarebbero la quintessenza umanoide; nell’idealizzazione negativa dei «nemici», così forti da minacciare l’altrui diritto all’esistenza ma anche così meschini e ripugnanti da dovere essere battuti; nell’elitismo come cognizione aristocratica del ruolo di guida in un percorso comune; nell’eroismo come angosciante erotismo necrofilo fino alla concezione della lotta come guerra e della guerra come prosieguo dell’esercizio prevaricatorio del dominio di genere; nel conflitto semantico e con l’istituzione di una neolingua dai significati contratti, dalla sintassi basica ed elementare, espressione di una logica primitiva.

Questo insieme di elementi, sia sempre detto e quindi ripetuto a scanso di equivoci, non corrisponde ad essenze immutabili bensì ad un vero e proprio apparato pulsionale, che poi si fa anche regime politico, qualora se ne diano le condizioni reali. La forza del fascismo che rimane è, d’altro canto, la sua capacità metamorfica. Del pari ad un suo fratello in armi, l’antisemitismo, trattandosi di due patologie della contemporaneità che frequentemente si incrociano, solidarizzando e rinforzandosi vicendevolmente. Va comunque da sé che la questione non si chiuda in questi soli termini. Per dare ad essa un respiro più coerente bisogna allargare il campo delle indagini. Se si vuole avere un indice di riferimento, risparmiandosi voli pindarici così come arrampicate nel cielo delle astrazioni, è un buon esercizio seguire l’ossessionante diluvio di compiaciute diffamazioni che si è riversato su Laura Boldrini, combinato disposto tra false notizie, veicolate sempre più spesso dai Social Network, fittizie cronache su quotidiani nazionali e corredo di invettive, vituperi e insulti. Poiché dallo strame della ragione che accompagna l’aggressione pressoché quotidiana nei riguardi della donna che ricopre la terza carica dello Stato in funzione di rappresentanza collettiva, si coglie tutto il deposito mentale, ossia sub-culturale, che rimanda, come un link funzionante in automatico, al fascismo perenne, persistente, eterno e paludato che dir si voglia.

Il problema, come già avevamo avuto modo di rilevare, in questo caso non è il giudizio politico su Boldrini ma il suo essere divenuta il bersaglio di una serie di violenti, diffamatori e strumentali attacchi a prescindere, ossia che esulano dai riscontri di fatto, cercando semmai di sostituirsi essi stessi ai fatti, per affermarsi come una sorta di realtà parallela, che vive una esistenza propria. La qual cosa indica non solo che chi ascolta e recepisce certe cose non intende sottoporle a verifiche ma che con il suo fare è alla ricerca di una realtà “altra”. Va poi registrato che negli indici di aggressività si stanno contraddistinguendo non pochi quotidiani nazionali, in parte collocati a destra dello spettro politico, come «Libero», «il Giornale», «il Tempo», «la Verità», in parte più mediani o “neutrali” (a volte anche il sansonettiano «il Dubbio», quasi una sorta di contrappasso alla testata diretta da Belpietro, definendosi come «il quotidiano che sbatte i diritti in prima pagina»). Si tratta di una vera e propria strategia della confusione, tra cosiddette «fake news» e uno pseudo-dibattito politico, quest’ultimo basato sulla maniacale reiterazione sempre degli stessi cliché. In questo agone confluiscono tratti tipici della fascisticità, ancorché spuria, per l’appunto calco antropologico piuttosto che ideologia politica, che peraltro ha sempre faticato a riconoscersi fino in fondo come tale: machismo e sessismo; un razzismo che si propone come interclassismo xenofobico; l’ossessione da invasione e il rimando all’«identità» come se essa fosse una sostanza eterea ed eterna; il sovranismo e l’appello alla «difesa dei confini», materiali e simbolici; l’angoscia da perdita e l’evocazione persistente di un risarcimento senza il quale si è, e si rimane, «vittime».

Un altro indice è il gioco allo sparigliamento delle carte al quale personaggi televisivi già da tempo ci avevano abituati, salvo trovare ora nuovi aedi. Il tratto comune tra generazioni diverse è il ricorso a quella che potrebbe essere definita la tecnica dei chiasmi, o dei riversamenti parossistici nell’opposto: gli “autentici” fascisti sarebbero gli antifascisti (tra i diversi esempi possibili, un Diego Fusaro d’annata su: «il fascismo dell’odierno antifascismo»). Si contraddistingue, in questo bailamme, la sequela di articoli che da diversi giorni accompagnano e corredano le ampie fogliate giornalistiche sulla proposta di legge presentata da Emanuele Fiano. Anche qui, al netto dei giudizi sulla bontà e sulla opportunità o meno di tale disposizione a venire, quel che residua è l’atteggiamento, così come gli stilemi linguistici, che corredano il suo rifiuto da parte di una destra che richiama gli altri all’obbligo della liberalità quando, per ciò che la concerne, se ne esenta in automatico, con assorto spirito auto-assolutorio. Il linguaggio della denigrazione è un collante universale, riducendo a stereotipi e a bozzetti macchiettistici idee e persone: espressioni oramai non solo ricorrenti ma consolidate, quindi di senso comune, come «buonismo» e «radical-chic», appartengono ad un’idiomaticità che, etichettando circostanze e attori, evita di entrare nel merito dei problemi per attribuirne la responsabilità, a prescindere da qualsiasi concreta verifica, a chi ne è fatto derisoriamente destinatario. Sussiste un ampio repertorio, fatto di parole indice, che perimetrano l’intolleranza e la rendono regime linguistico che si convalida in se stesso, per il fatto medesimo di essere pronunciate irriflessivamente.

Da sempre, d’altro canto, la strategia di irridere risponde a due bisogni: coprire il proprio senso di inadeguatezza, ovvero la mancanza di una controproposta di merito, e al medesimo tempo stigmatizzare e deformare l’immagine dell’avversario. Si concentra su quest’ultimo l’attenzione collettiva, distogliendola dal vuoto pneumatico del proprio dire. L’anti-intellettualismo è tornato in auge da molti anni ed è il vero corredo, come nel più classico fascismo, delle posizioni che simulano una disponibilità all’azione o, comunque, una reattività basata sull’enfatizzazione della pulsione, a tratti quasi etologica, comunque pavloviana. Non è un caso, quindi, che un nuovo contenitore di questo campo di aggressività, che si legittimano da sé per il fatto stesso di manifestarsi, emergendo da una latenza alla quale erano consegnate ma non per questo sedate, sia offerto dal web e, più in generale, dalla gigantesca sfera della comunicazione pubblica. La dilatazione dello spazio virtuale sembra corrispondere ad una contrazione della sfera pubblica e, in immediato riflesso, dell’esercizio politico. Il fascismo perenne non è mai un “di più” di politica, costituendone semmai la sua estinzione, sostituita da simulacri identitari e da un vuoto ripetersi di formule ossessivamente manipolatorie. Il discorso fascista è allora suggello della crisi radicale dell’universalismo egualitario, sostituito dal bisogno di uniformità come anche da un narcisismo tanto debole quanto diffuso. Le due cose, infatti, non sono per nulla in contrasto. Il vero rischio che si sta correndo, soprattutto in alcuni ambienti politici, è di convincersi che la risposta a questo stato di cose sia garantita da un pericoloso baratto, quello che sostituisce alle battaglie per i diritti sociali l’enfasi esclusivista sui diritti civili, intendendo questi ultimi come la garanzia del pluralismo quand’essi, in assenza di reali possibilità di accesso alle risorse materiali ed espressive per una parte sempre più rilevante della popolazione, potranno essere fruiti esclusivamente come diritti alla differenza individuale o di gruppo.

Anche qui si ingenera un’eterogenesi dei risultati poiché, poste certe condizioni, il riconoscimento delle specificità culturale, se non si incardina in una struttura sociale a mosaico, dove le diseguaglianze economiche (che non si sovrappongono necessariamente alle differenze identitarie) non si contemperano e smussano vicendevolmente, può enfatizzare, per paradosso, la separazione tra gruppi e la loro reciproca ostilità. Contribuendo a rompere il tessuto non solo costituzionalistico ma anche democratico del Paese. Oggi il problema non è il ritorno del fascismo vecchio stile, e del suo corredo razzista, ma l’affermarsi di una vera e propria egemonia sub-culturale che rimanda al radicalismo delle destre estreme, nobilitate, in alcuni loro aspetti, a elementi delle culture di governo. Il dispositivo antisemitico sta dentro questa traiettoria collettiva. Il discorso in tal senso ricorrente demanda a diverse parole chiave, variamente declinate: «identità», «straniero», «invasione e minaccia», «popolo e morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale e della funzione della politica come strumento per ripristinarlo), «élite e popolo» (ovvero della lotta dal basso contro l’alto), quindi «prossimità e distanza» così come «autenticità e artificiosità» (alla ricerca delle radici perdute del legame sociale) ma anche «Europa e antieuropeismo». Due sono le sintesi possibili di questo novero di elementi che stanno nell’agenda della contemporaneità: ciò che viene identificata come una sindrome, politicamente profittevole, di «panico identitario» (derivante dalla perdita degli status e delle garanzie sociali) e, sull’altro versante, il sogno – che si fa incubo – di transitare dal sociale al naturale, garantendo la fissità dei ruoli e la cristallizzazione delle identità collettive.

La sfida lanciata da tempo dalla destra radicale sta nel suo passaggio dalla conservazione al movimento, per ripristinare «l’ordine naturale perduto», presentandosi come soggetto che intende guidare il mutamento e, nel medesimo tempo, contrapporsi ad un liberalismo che si limita a registrare i cambiamenti, dipingendoli e spacciandoli per neutrali, poiché di essi ne beneficia, a discapito della «comunità di popolo». Lo fa intrecciando due temi di fondo: lo sposare la causa di una “cultura inalterabile”, tale poiché “autentica”, ed autentica in quanto legittimata dal suo avere profonde radici nella Gemeinschaft, insidiata dalla modernità cosmopolita della globalizzazione; l’abbracciare un’idea ancestrale di popolo, direttamente e immediatamente minacciato dallo sradicamento dei processi immigratori. Il popolo è inteso come una sorta di essenza organica, una somma indistinta di individui, un autentico «fascio» di omologhi, che conta per il suo essere quantità, alla quale si incarica di dare significati e indirizzo politico il capo carismatico. A ciò si affianca la falsa critica del neoliberalismo: sottratta al campo dell’analisi critica, diventa neonazionalismo e rigetto tout court del liberalismo. Il tutto, condito dal presentarsi come «pensiero non conforme», per sedurre il pubblico, soprattutto quello giovanile, dando a temi vecchi una patina di originalità. Ciò a cui stiamo assistendo è un ribaltamento dei poli, dove l’antagonismo viene letteralmente metabolizzato dentro l’identitarismo populista. Si tratta della restaurazione di una «teologia politica» fondata sulla «nazione». La quale cosa implica il riposizionamento del legame sociale, il suo nuovo radicamento in un determinato territorio ma anche il vivere il rapporto con gli omologhi come un destino tanto ineluttabile quanto imprescindibile. E come tale da desiderare.

Da ciò deriva il comunitarismo di ritorno tipico del radicalismo di destra: il «suolo», in quanto istanza generativa di identità e tradizione, viene contrapposto alla «tecnica»; è enfatizzato il valore della lentezza in contrapposizione alla velocità delle transazioni, soprattutto finanziarie; è identificata la prossimità nelle relazioni interpersonali come indice di veracità morale; si stabilisce un’affinità tra le persone in base ai vincoli di reciprocità etno-culturale e non al contratto e alle intermediazioni, altrimenti garantite dal diritto; si rimanda all’“autenticità”, che è tale sempre e comunque solo se perduta nei miasmi della contaminazione causata dai processi migratori (e come tale da ritrovare attraverso un’opera collettiva di risanamento della società, identificando chi può fare parte di quest’ultima a pieno titolo e chi no); si accentua il ruolo delle emozioni come fonte sorgiva della comunità politica (l’immediatezza, la “spontaneità”, ancora una volta la naturalità di contro alla distanza, alla mediazione, alla ragione e al calcolo, freddi strumenti di una borghesia eurocratica). Già da questo primo novero di temi, non si avrà difficoltà a ritrovare alcuni lineamenti di fondo della vecchia e mai tramontata «rivoluzione conservatrice», il vero filo nero dell’intelligenza fascista nel Novecento. E tuttavia il catalogo non si esaurisce con questi accenni. Fondamentale, ad esempio, è il rimando al tema, già citato, del «panico identitario», che nasce dal bisogno di ridefinirsi «in rapporto a comunità molto coese». Si tratta di un gioco degli specchi: la percezione che gli “altri” siano un fronte unito, minaccioso, induce a riflettere sulla propria condizione presente, sempre più spesso intesa come uno stato di miseria che nasce dal non identificarsi in una dimensione intersoggettiva.

La nozione di «popolo» si rigenera alla luce di questo riscontro che si fa paura: cosa sarò io se non saremo capaci di diventare, insieme, di nuovo qualcosa? È questa la condizione per cui non solo gli individui ma una comunità politica si spostano sempre di più sul piano inclinato dettato da chi ha il controllo della costruzione di immagini del presente. È la condizione per la quale ciò che resta di una sinistra senza spirito e priva di corpo si fa dettare l’agenda dalla “vecchia-nuova” destra illiberale. Un paradosso che non nasce solo dall’inanità culturale della prima ma in primis dalla inconsistenza del “liberalismo” del quale si ritiene depositaria. È proprio quest’ultimo elemento ad alimentare, come se si trattasse di una sorta di risarcimento, i fantasmi miracolosi di un ritorno ad un passato edenico, che si dice perduto. Ne deriva, come conseguenza prevedibile, l’insistenza sui «valori» e sulla restaurazione della morale. Lo scambio conflittuale che viene proposto è quello di «rimoralizzare spazi senza regole» di contro alla minaccia anomica. Il nesso logico diventa quindi questo: perdita del controllo del territorio e diffusione della mancanza di regole; reazione attraverso la ricostruzione di una morale altrimenti oltraggiata; identificazione degli individui attraverso la loro appartenenza comunitaria; saldatura tra comunità e morale.

La comprensione e l’identificazione del ruolo della destra radicale italiana ed europea nel tempo che stiamo vivendo implica cogliere alcuni aspetti di contesto. Il primo di essi rimanda alle domande sul senso delle trasformazioni che le nostre società stanno vivendo. La percezione diffusa, tra una parte della popolazione, che il mutamento gli giochi negativamente, ha un forte impatto nel determinare una diffusa dissonanza cognitiva tra attese e risultati. La ricerca di una compensazione, rispetto allo smarrimento incentiva, più che il bisogno di intraprendere nuovi percorsi, il desiderio di riconoscersi in qualcosa di già visto, detto e condiviso. L’affanno del «nuovo che avanza» ingenera sconcerto e disincanto. Esso, infatti, è spesso vissuto nella sua doppia radice di smacco rispetto alle aspettative e offesa nei riguardi del proprio status socio-culturale. L’unica compensazione plausibile è offerta dal reiterare moduli di pensiero tanto consolidati quanto privi di riscontri nel tempo che avanza. Su questo piano inclinato, tale perché destinato a fare rotolare coloro che vi si dispongono acriticamente, scivolandovi in progressione, la destra radicale offre la solidità apparente del «buon senso comune», riscoprendo e facendosi alfiere delle posizioni legate all’appartenenza di stirpe, declinata come atavismo inalienabile, e della tangibilità della terra, intesa come territorio sul quale si esercitano diritti proprietari e soprattutto identitari.

L’arsenale della destra radicale, al netto dei simbolismi e dei ritualismi che connotano le appartenenze militanti, riposa essenzialmente nel linguaggio. È questo un secondo aspetto di grande rilevanza. La capacità di costruire una egemonia sub-culturale è quindi strettamente connessa alle parole che vengono utilizzate per definire, e cercare di portare sollievo, alla dissonanza quotidiana. Soffermandosi sulla centralità della lotta per il possesso del campo semantico, affermano Luc Boltanski ed Arnaud Esquerre in Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra (2016): «gli usi delle parole costituiscono, soprattutto nello spazio pubblico, strumenti fondamentali di lotta politica, perché hanno l’effetto di determinare cosa può essere detto e cosa no in una congiuntura specifica. Rendono cioè lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili. Per questa ragione le trasgressioni linguistiche sono sempre state tra i principali strumenti utilizzati per condurre dei colpi di mano in politica». Più che a dettare una precisa agenda, la destra radicalizzata fornisce il lessico del disagio in corso, dando quindi una forma a ciò che, altrimenti, rischia di rimanere allo stato di percetto confuso e sfocato.

Per questo sta costruendo una sua egemonia para-culturale, spostando su di sé l’asse dell’attenzione di una parte della società che, sentendosi sempre più posta ai margini e sempre meno rappresentata, dinanzi all’imperativo del «non c’è alternativa allo stato di cose esistente», registra in esso il suggello della sua crescente inessenzialità. Ciò che questa destra radicale va quindi facendo, più che un’opera di tradizionale ideologizzazione, secondo i canoni abituali dell’appartenenza politica, è semmai quella di «riconoscimento» dello stato di abbandono in cui versano gli esclusi, ossia quanti hanno perso o stanno perdendo lo status di cui si sentono ancora depositari. Il suo ruolo, in altre parole, è di dare voce ad essi, sia pure usando il proprio lessico. A fare da concorso a questa traiettoria vi è la generale disposizione per la quale gli attori che si esprimono in pubblico cercano di uniformarsi al modello del «portavoce», fatto che implica: «il confermare le attese preesistenti, interpretando ogni volta il ruolo che ci si aspetta da loro in una recita di cui tutti più o meno conoscono l’intreccio». Si tratta di un terreno scivolosissimo, sul quale le forze politiche tradizionali si collocano oramai abitualmente, confidando di giocare con forze proprie mentre, invece, alimentano in maniera perversa il circuito per cui si rendono sempre più subalterne alle parole d’ordine espresse dal radicalismo. Il riscontro, al riguardo, è che: «oggi tutti si spostano in continuazione, spesso in modo confuso, per non essere lasciati indietro da altri più veloci, aprendosi sempre di più verso la dimensione dell’estremo, quindi oggi verso l’estrema destra».

Più in generale, questo fenomeno segna il passaggio dalla contrapposizione tra una destra liberal-liberista e una sinistra socialdemocratica a quella tra un conservatorismo immobilista, basato sul laissez-faire, e la destra radicale: a quest’ultima, quindi, spetta la palma della mobilità. Al discorso dominante, basato sulla non modificabilità dello stato delle cose vigente, subentra così la tentazione di una contestazione totale e permanente, fondata sul capovolgimento degli assunti dominanti. Il tutto, però, non sulla scorta di un controprogetto bensì attraverso il semplice desiderio di confutare l’esistente in quanto tale. Ne deriva il ritratto di un radicalismo senza una radice che non sia lo stato diffuso di disagio sociale, nel suo oramai perpetuo rinnovarsi. In questo percorso la destra radicale si avvale di tre elementi: il primo è la presa a prestito dalla sinistra di un discorso radicalmente critico del neoliberalismo, in difesa del «popolo», nel mentre si invoca l’intervento salvifico dello «Stato». Il fuoco reale della destra radicale rimane comunque l’avversione nei confronti del liberalismo politico. La polemica contro il liberismo, infatti, si basa non su una visione critica delle relazioni sociali di produzione bensì sull’opposizione tra un’economia nazionale sovrana e il capitalismo cosmopolita.

Poiché non si intendono mettere in discussione le prime, si dice che la deriva che la collettività vive sia il prodotto della manipolazione del «buon, vecchio, radicato sistema economico». Si tratta di un insieme di immagini mentali idealizzate e cristallizzate che rimandano alla cultura materiale del fare e della fatica, dove le relazioni interclassiste si condensano in una concezione al medesimo tempo nazionalista e gerarchica dell’economia, ancora una volta fatta passare per «naturale» espressione delle cose. In questo, la destra radicale è rimasta ancorata a una sorta di sintesi tra ruralismo e fordismo manifatturiero come fucina delle identità lavorative. Il secondo elemento è dato dal rifiuto totale del liberalismo storico (i Lumi) e della sua espressione sociale, una borghesia cosmopolita che emerge dalla crisi del ceto medio per avvantaggiarsi delle altrui sventure. Anche questo costituisce un vecchio cavallo di battaglia, laddove all’internazionalismo disidentitario del soggetto borghese, al suo essere ancorato alla dimensione anonima e anomica della metropoli, così come al capitale speculativo, finanziario e quindi fluttuante, si rivalutano e contrappongono le virtù di soggetti interclassisti il cui legame di reciprocità deriverebbe dal vivere permanentemente su un territorio, della cui storia sarebbero i titolari, avendo ramificato da tempo immemore su di esso le proprie radici.

Il fantasma antisemitico, in questo caso, è immediatamente dietro l’angolo poiché gli ebrei, nelle costruzioni ideologiche del radicalismo, sono invece la quintessenza del carattere borghese, sommando su di sé i caratteri della peggiore amoralità: individualismo, internazionalismo antisovranista, mancanza di radici, come anche il parassitismo e una grande capacità camaleontica, sapendosi adattare ad ogni situazione per inquinarne i caratteri «puri». Contro questo stato di cose e per ristabilire un «sano» legame sociale, bisogna quindi reagire ed attivarsi. Il fenomeno migratorio, in quanto «invasione», ne è la quintessenza, rispondendo a un preciso disegno di smobilitazione della capacità di risposta vitale delle comunità nazionali sovrane, alle quali viene contrapposto e progressivamente sostituito un meticciato universale, grazie al quale le classi borghesi ultraricche potranno preservare i loro privilegi se non incrementarli. Il terzo fattore, inteso come cornice, è il recupero dell’ultraconservatorismo dai riflessi contestatari, che transita dal secondo Ottocento al primo Novecento per arrivare a noi, rivestendo la destra radicale di una fisionomia antitetica a quella da essa altrimenti assunta fino ad allora: non soggetto quietista ma figura di mobilitazione; non agente del rifiuto ma imprenditore della trasformazione. Un capovolgimento copernicano, poiché il discorso politico sulla «restaurazione» dell’ordinamento sovrano non poggia più sulla passività del «popolo» medesimo bensì sul suo coinvolgimento attivo. Si tratta di un passaggio strategico: la destra reazionaria ha tradizionalmente decantato i «valori» perduti di un aristocraticismo dello spirito (e del possesso) che si identificavano con i sistemi di Ancien Régime.

L’immobilismo ne era una garanzia, cristallizzandone la struttura piramidale. La destra radicale odierna, pur continuando ad attribuire a un’élite dirigente, ora intesa essenzialmente come soggetto politico, le qualità di nobiltà e superiorità inarrivabili, si appella alla collettività, definendola come il vero soggetto del mutamento. Il fatto che tale appello sia essenzialmente inteso come una «reazione» allo stato delle cose esistente, ossia come risposta di rimessa, alla ricerca di un passato perduto, tematizzato quindi mitologicamente, non toglie nulla al suo essere elemento di mobilitazione. La funzione discorsiva è qui svolta dalla critica al «pensiero unico», tale perché omologante e lobotomizzante, che è attribuito al capitalismo della globalizzazione e alla borghesia internazionalista. Il tema della rottura di un modo univoco di pensare (con il suo corollario solidarista di aggregazione) è preso di forza dall’arsenale della sinistra e rivolto contro di essa. Un aspetto che sfonda il senso comune trasversalmente, è lo slittamento verso lidi revisionistici del senso comune, attraverso una lettura provocatoria della storia, dove ci si impegna a rompere le convenzioni interpretative, ora denunciate come mistificazioni. Il racconto del passato, soprattutto di quello del secolo appena trascorso, con il suo lascito di tragedie, è il prodotto del «racconto dei vincitori».

Non è allora un caso se il negazionismo, ovvero il rifiuto dell’evidenza fattuale e della rilevanza nelle coscienze del dopoguerra dello sterminio delle comunità ebraiche europee, ricondotto semmai a particolare secondario del processo storico, sia perennemente in agguato. Poiché nel suo essere l’estremità assoluta dei discorsi radicali, si presenta, agli occhi e alle orecchie degli astanti, come un discorso privo di inibizioni, libero da obblighi di deferenza verso la narrazione della «vulgata dominante», quindi atto «anticonformista» e, come tale, esercizio di «libera espressione». In un rapporto di triplice reciprocità tra sovvertimento dei significati, rimando alla libertà come licenza di giudizio e, infine, simulacro di conoscenza, quest’ultima in quanto prodotto di una propria disposizione d’animo e non come risultato di una indagine scientifica. In questa operazione di rovesciamento, due sono i termini che fungono da perno: «popolo» e «morale». Il popolo viene assunto da destra come figura indistinta di soggetti oppressi e sfruttati dai «potenti». Il primo punto da cui partire, quindi, sta nel riconoscergli un deficit di rappresentanza. A tale riguardo – accusa la destra radicale –, la controparte di sinistra avrebbe tradito la sua storica funzione di raccoglierne il disagio, poiché troppo intenta a rappresentare se stessa, in quanto collusa con i «poteri forti».

La sinistra, in altre parole, non solo non è più oppositiva ma costituisce un architrave del sistema di oppressione «borghese». Non di meno (ed è una funzione essenziale della stessa prassi di sistematica indistinzione adottata nel linguaggio populista), il fatto che il popolo del quale si dice volerne recuperare la rappresentanza, sia un tutt’uno organico, risponde ad una visione interclassista che si fa anticlassista. Poiché al suo interno esisterebbe una sola linea di separazione, quella che intercorre tra una comunità ancestrale, quindi in sé buona, quella autentica, fondata sul radicamento spaziale e territoriale e sul virtuosismo morale, ed un ceto cattivo, tale perché artificiale e improduttivo. La natura della destra rivoluzionaria riposa quindi nella volontà di creare una terza forza, che si contrapponga alla «plutocrazia» e alla oclocrazia. L’ossessione contro il denaro, come veicolo dell’artificiosità, è d’altro canto uno dei fondamenti dell’immaginario radicale. Registra anche il passaggio, consumatosi dal dopoguerra in poi, dalla bontà e veracità della figura del lavoratore rurale (alla quale si accompagnavano la perversità e la pericolosità delle classi lavoratrici urbane e industriali, proclivi al socialcomunismo) alla rilevanza del «popolo dei produttori», in realtà tali soprattutto perché colpiti dalla crisi della produzione e, in immediato riflesso, dal declino del loro status sociale.

Il baricentramento del discorso si è infatti spostato verso il nuovo ceto medio, sofferente per lo stato delle cose e, al medesimo tempo, insofferente per il suo perdurare. Il vero nemico è il connubio tra oligarchie del denaro e la sinistra «benpensante» e «buonista». Il legame tra la stratosferica alterità dei grandi gruppi di potere finanziari e la strafottente presenza sul territorio della seconda è garantito dall’enfatizzazione sui diritti civili e individuali, quelli che afferiscono e concernono un «soggetto borghese» che è, per sua definizione, manipolante e manipolato. Manipola lo stato delle cose, a proprio beneficio, così come è completamente rescisso dalla naturalità del popolo. Di fronte a ciò sarebbe quindi necessario consolidare una «vera opposizione», tale poiché «né di destra né di sinistra», ma fondata sull’autenticità del legame etno-culturale. Da ciò deriva e si pone un problema di fondo, all’interno di una cornice – quella della transizione dalla questione sociale al problema penale (sorvegliare e punire, in buona sostanza) – dove le deficienze del presente, l’incomprensibilità del mutamento, lo smarrimento ingenerato dall’«età delle passioni tristi» vengono riformulati come indici di una necessità inderogabile, quella di «rimettere gli individui al loro posto», impedire gli sconfinamenti, generare nuova sicurezza attraverso l’incasellamento del pluralismo sociale all’interno di una serie di ruoli sequenziali, come tali definiti e invariabili.

L’«ordine» è, da questo punto di vista, sempre e comunque intrinsecamente morale. Il senso della proposta politica della destra radicale è che l’ordine corrisponde al controllo sociale e il controllo sociale è la garanzia della virtù che riposa nella prevedibilità. Da tale disposizione consequenziale deriva la necessità di formulare il richiamo all’ordine morale in termini di ovvietà: «per una sorta di tautologia circolare, è morale ciò a cui tiene il popolo; e il popolo è veramente tale perché tiene a ciò che fonda i “valori”». Conservare è la parola magica e risolutiva. Implica sia il soddisfacimento di un bisogno nostalgico (rivolto quindi al passato) che l’enfatizzazione del binomio tra insicurezza e protezione (declinato al presente). Conservazione demanda inoltre al discorso – a sua volta ossessivamente ribadito – sulla natura e la «naturalità» della condizione sociale, di contro all’artificiosità dei diritti civili. Il battere il chiodo delle identità sessuali è funzionale alla ricostruzione di un universo di significati morali che si identifichi pienamente con la rassicurante fissità dei ruoli. Cosa c’è di più «naturale» della sfera sessuale se essa è associata a precise funzioni sociali, ossia immutabili, fisse come se fossero delle essenze? Il resto è solo un ibrido che non può che procurare ribrezzo. La centralità del tema dell’identità deriva quindi anche da queste premesse. Si trasferisce sulla questione della nazione, intesa come unione sacra tra vivi e morti nella medesima comunità. Il popolo autoctono esiste poiché schiacciato dai meticci e dagli altri «stranieri interni». Se nel caso degli ebrei il tema di fondo era il complotto, per i musulmani è, invece, l’invasione.

L’attenzione verso e contro l’«invasione musulmana» si accompagna comunque al perdurare dell’ossessione nei confronti del «complotto giudaico». Ha prodotto una differenza inconciliabile, un’alterazione, qualcosa che non è possibile includere nel concetto di popolo per come la destra nazionalista lo intende. Il popolo vero e autentico, infatti, esiste per sottrazione: è essenzialmente ciò che non vuole né deve essere, ossia lo scarto in quanto parte da rifiutare, da abbandonare, eventualmente da eliminare. Si tratta comunque di neutralizzare, poiché la dialettica sociale, per la destra, sta nel rapporto tra il popolo autentico e quello dei marginali, questi ultimi tali in quanto irriducibili alle «sane regole» del convivere civile. Il passaggio dall’identità dell’Europa all’Europa delle identità si presenta in tale modo più agevole. Si tratta di alimentare la situazione che si dice di volere combattere, incrementandone paradossalmente la plausibilità cognitiva: gli imprenditori politici della paura agiscono propriamente su questa leva. Le politiche securitarie vanno in tale senso, ancora una volta tautologico perché circolare, incentivando il senso di insicurezza che a sua volta chiede maggiore protezione, alla quale corrisponde un aumento di rischio percepito che domanda pressantemente ulteriori attenzioni e così via. Le tesi più estreme assumono in tale modo, con lo spostamento di baricentro verso destra, una sorta di crescente convalida, ossia di auto-legittimazione. Quand’anche il fatto da cui si generano non sussista se non nell’immaginazione. Anzi, ancor più dal momento che al fatto si sostituisce una sorta di mitografia dell’evento.