15 Maggio 2022

“Dalla paura all’odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo. La cultura della violenza jihadista e dell’ultradestra eversiva da al-Qaeda a QAnon, e oltre”

Roma. Dalla paura all’odio. Una intervista alla Dott.ssa. G. Tappero Merlo

La Dott.ssa Germana Tappero Merlo svolge attività di consulenza come Senior Analyst in Intelligence, Security and Terrorism presso organizzazioni intnernazionali, think tank in Italia e all’estero. ‘ autrce di numerosi saggi in ambito intelligence e sicurezza internazionale e terrorismo cyberwar e guerre future. Ha da poco pubblicato “Dalla paura all’odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo. La cultura della violenza jihadista e dell’ultradestra eversiva da al-Qaeda a QAnon, e oltre”, edito da Tangram ED. Scientifiche.

GC: Gentile Dottoressa, Il suo libro è frutto della ricerca e dell’analisi nel campo dell’estremismo violento, non solo jihadista, con le note vicende terroristiche degli ultimi due decenni e legate ad al-Qaeda e al sedicente Stato islamico…

GTM: Sì, è esatto, ma anche di quello, meno conosciuto e sovente sottovalutato, relativo ad una ultradestra radicale, che ormai investe gran parte del mondo occidentale, con appendici anche in Australia e Nuova Zelanda. Come analista internazionale per l’intelligence e la sicurezza nazionale ho infatti voluto fare il punto, e con fermezza, su quelle che considero manifestazioni di culture violente, differenti ma complementari, che già si manifestano ampiamente al di fuori del nostri confini e che possono mettere a rischio anche la nostra sicurezza.

GC: E’una questione di drammatica attualità… Anche se è decisamente minore lo spazio dedicato al jihadismo rispetto a quello che Lei definisce il FRVE, far right violent extremism. Non dobbiamo più temere i combattenti per il Califfato?

GTM: Direi di continuare  a temerli e a monitorarli strettamente, perché il jihadismo muta in continuazione, si espande con nuove sigle, favorito anche dall’instabilità di ampie aree geografiche. Dal Vicino Oriente all’Africa, il jihadismo è causa ed effetto di questa instabilità. Nel libro, ad esempio, faccio dei distinguo  fra al-Qaeda e lo Stato Islamico, puntando l’attenzione su quest’ultimo per via delle sue capacità di comunicazione, molto efficaci, e poi  proprio perché non è scomparso. E’ una minaccia fluida nelle sue espressioni locali e nella sua vocazione globale. L’obiettivo finale è sempre la creazione del Califfato e quanto già sappiamo. Le modalità sono comunque sempre diverse: è di fatto un terrorismo che ho definito adocratico, che si adatta alle realtà locali  in cui si inserisce e interagisce, non disdegnando  una vocazione insurrezionale, mettendosi di traverso in tante realtà instabili. Non a caso, per lo Stato Islamico, di quel che resta del vecchio Daesh o Isis che dir si voglia, si parla di new insurgency terrorism, nuovo terrorismo insurrezionale, ed è presente dal Vicino Oriente, Africa e ora soprattutto in Centro Asia, come dimostrano i ripetuti attentati contro gli sciiti che avvengono sia in Afghanistan che Pakistan da parte di IS- Khorasan, ad esempio. Tra gli ultimi, a Peshawar lo scorso 4 marzo, con decine di morti e feriti.

GC: Lo Stato Islamico è ancora un progetto e una forma mentale viva e vegeta, purtroppo, anche se ha perso parecchi leader e consistenza territoriale.

GTM: Ma sopravvive, eccome. Viene anche tramandato attraverso l’ educazione jihadista a parecchie giovani generazioni, in parte nel Vicino oriente, ma molto nell’Asia centrale e in alcune aree del Sahel africano, dalla Nigeria allla regione dei Grandi Laghi.

GC: Quello che Lei ha chiamato FRVE -far right violent extremism- è invece riconducibile a un ritorno all’ideologia fascista o nazista ?

GTM: Non esattamente. E’ genericamente riferito a neofascismo o neonazismo, ma di fatto è un fenomeno violento che  ho ricondotto alla sigla FRVE usata da noi analisti internazionali, perché non è  demarcato ideologicamente in maniera così chiara e netta. E’ un  amalgama di concetti e dottrine; è composto da una moltitudine di apporti ideologici che richiamano certamente a quei regimi del XX secolo, ma vanno addirittura oltre.

GC: La gran parte degli appartenenti a queste frange estreme ha idea di chi fosse Hitler o Mussolini?

GTM: No, tranne alcuni gruppi specifici. E’ più il richiamo ad atteggiamenti in difesa della razza bianca (da cui anche i suprematisti statunitensi), xenofobia e ad un costante antisemitismo, senza disdegnare sovente anche comunità ‘altre’, come quella LGBTQ, ad esempio. Si sta registrando, infatti, in Europa e negli Stati Uniti, un forte aumento di azioni violente  di singoli soggetti o gruppuscoli che si ritrovano sotto l’ombrello, per così dire, ideologico di questo FRVE, che è sovente razzista, marcatamente islamofobo e antisemita, anche se non sempre antisionista. Inoltre, proprio l’FBI ha di recente dichiarato di considerare il FRVE la minaccia più grave alla sicurezza nazionale, ben maggiore rispetto all’estremismo jihadista. Un fenomeno, a mio avviso, sottovalutato in Europa se non addirittura ignorato. Si tratta tuttavia di una vera e propria cultura della violenza, con i suoi testi e miti di riferimento da cui, come avviene per il jihadismo,  chi ne viene affascinato  trae ispirazione per  poi passare all’ emulazione di atti violenti.

GC: Violenza politica e terrorismo, quindi, sotto nuove vesti?

GTM: Ho voluto fare il punto su una situazione, a mio parere preoccupante ed in evoluzione,  circa una violenza  non solo verbale –  per intenderci quella che si muove in rete, attraverso le piattaforme social più conosciute –  ma  anche concreta, e che si manifesta in azioni di vero e proprio terrore. Infatti, si è già esplicitata in stragi condotte da singoli individui. Anders Breivik e i suoi crimini a Oslo e Utøya, nel 2011, con circa 70 morti  e numerosi feriti, è quello che ha fatto scuola al riguardo. Tra l’altro è il più famigerato dei lupi solitari, anche rispetto ai jihadisti e ha trovato ‘adepti’ in tutto il mondo. E nel testo spiego anche del perché del prediligere, da parte del FRVE, l’azione stragista  singola. Sono ora quei fenomeni conosciuti come mass shooting e propri di un FRVE, che a questo punto è diventato transnazionale. Lo testimoniano fatti accaduti in particolare nel 2019, dagli Stati Uniti, Nuova Zelanda e anche in Europa, e che in parte esamino nel libro. Non è il terrorismo ‘classico’, quello più conosciuto, ossia quello di stampo jihadista. E’ per ora più una  forma mentale che considera la violenza, l’eliminazione dell’altro, il nemico, come unica soluzione per difendere la propria comunità, oltre che se stesso. Il timore è dato dal rischio di passare dalle parole ai fatti. Situazioni di grave tensione sociale, come quella vissuta con la pandemia, i lunghi lockdown e le inevitabili ripercussioni negative sulla realtà economica, possono essere miscele per innescare micce pericolose.

GC: A suo avviso, si può parlare quindi di terrorismo o sono solo azioni criminali di soggetti alterati?

GTM: Si tende a ridurre quelle azioni come manifestazioni di frustrazioni personali, che certamente ci sono, ma si deve andare oltre, anche perché non è  follia. Vi sono  percorsi personali e collettivi che portano a queste manifestazioni di violenza. Le ho esaminate nel testo, considerando poi che si tratta sempre più di espressione di una violenza individuale: lo stesso jihadismo si muove sempre più verso l’individualità operativa. Ma il problema a contrastare queste forme di violenza politica, che non sia il più noto terrorismo islamista, sta anche nella  difficoltà a definire univocamente cosa si debba intendere per  ‘terrorismo’, con gli inevitabili ostacoli a un’azione di contrasto collettiva e condivisa. C’è ancora molto da lavorare su questo aspetto. Nello specifico della mia analisi, ho ridotto il terrorismo a tattica, a quel modus operandi preferito  dagli estremisti di entrambe le parti, per ottenere i propri scopi e partendo dai loro  manuali e manifesti programmatici.

GC: Un’analisi quindi di ideologie, quindi?

GTM: In pratica, mi sono concentrata su quella che è la cultura della violenza politica oggi, che non definirei ideologica come nemmeno esclusivamente religiosa, quanto creata ed alimentata dalla ricerca, difesa o affermazione della propria identità, laddove, ai nostri giorni, e lo si sta vedendo con la guerra in Ucraina, i conflitti non sono più esclusivamente ideologici quanto identitari. La difesa o la riaffermazione del primato di una identità sull’altra, sia essa religiosa, etnica, linguistica, nazionale se non addirittura razziale, di fatto stanno caratterizzando i più moderni conflitti del nuovo millennio. Conflitti, come è stato ripetuto più volte in questi giorni di guerra in Ucraina, che sono fortemente asimmetrici, per via della disparità di forze sul campo, spesso ormai anche con attori non-statali,  e sono soprattutto  ibridi, ossia non solo ed esclusivamente condotti con armi convenzionali, ma anche con sanzioni economiche, ad esempio, oppure con azioni  nel  cyberspazio. Uno spazio, quest’ultimo, utilizzato  anche solo per propaganda, diffusione di fake news, su entrambi i lati del conflitto, e così via. Il terrorismo è quindi parte di queste nuove guerre ibride che, di fatto, prendono l’avvio dalla fine della guerra fredda, come spiego nell’introduzione al volume.

GC: Lei parla di un’era di ostilità assoluta. Non le pare una definizione troppo drastica e pessimistica?

GTM: Sono sempre più convinta invece che sia, la nostra, l’era dell’ostilità assoluta, per i toni e i mezzi impiegati, dove il tanto propagandato scontro di civiltà si è rivelato essere decisamente altro. Infatti la nostra è quella che definisco ‘una civiltà degli scontri’, anche se il termine “civiltà” dovrebbe   presupporre tutt’altra cosa e non certo la piega di violenza che stiamo assistendo dalla fine della guerra fredda. E direi che di conflitti ce ne sono stati parecchi, anche nella nostra Europa. Dall’ex Jugoslavia dei primi anni ‘90 alla minaccia terroristica più recente, non possiamo affermare di aver vissuto in un’era di pace. Questa affermazione è solo retorica europeista, perchè non considera i caratteri delle nuove guerre contemporanee. Non abbiamo avuto la guerra sul territorio attuale dell’Unione europea, è vero, ma siamo stati coinvolti nei più sanguinari e complessi scenari mondiali, dall’Afghanistan, all’Iraq, Siria e Libia, per citare i più noti. Erano forse lontani, ma non certamente a noi estranei, perché si tratta oramai di conflitti, appunto, globali, asimmetrici e ibridi, senza confini territoriali e senza risparmio di mezzi. Ora poi è evidente che parecchio della mentalità della guerra fredda non è affatto  scomparso dalla mente di molte frange della politica, anche occidentale.

GC: Nel testo che stiamo esaminando Lei ha parlato appunto di radicalizzazione, non solo jihadista…

GTM: Studiando le  modalità operative e soprattutto le dichiarazioni scritte o i video-testamenti di soggetti propri del FRVE, sono evidenti affinità fra la radicalizzazione alla violenza di questa frangia estrema della destra  con il processo di radicalizzazione jihadista. Un’altra radicalizzazione, certamente, ma di fatto con processi personali molto simili e addirittura terminologia simile. Non è un caso che vi siano già esempi in Europa (anche uno in Italia) di tentativi di de-radicalizzazione di soggetti  legati al FRVE, alcuni dei quali dichiaratamente neo-nazisti. Non si deve mai pensare, e per entrambi gli schieramenti, jihadista e FRVE, che siano soggetti che abbiano subito il lavaggio del cervello. Sono degli  indottrinati, hanno acquisito e fatti propri concetti di una cultura radicale violenta che appunto cerco di illustrare nel mio testo. La de-radicalizzazione di costoro non è affatto semplice, e potremmo già essere soddisfatti di limitarci ad azzerare la loro pericolosità sociale. Ma il processo di de-radicalizzazione è sempre e decisamente molto più complesso.

GC: Sono d’accordo con Lei. Anche io, nel mio studiare il fenomeno della radicalizzazione in questi anni ho trovato diverse similitudini per così dire. Ci puo’ fare degli esempi fra i due opposti schieramenti?

GTM: In entrambi, jihadisti e FRVE, si ha una visione apocalittica del futuro, la percezione di essere in pericolo come soggetti appartenenti ad una religione (jihadisti) o cultura/razza (occidente/uomo bianco), la convinzione di entrambi di avere una missione da compiere per il bene dell’umanità, soprattutto se passa attraverso stragi e bombe, perché deve essere una sorta di martirio dal carattere purificatorio. La convinzione di far parte, quindi, di una schiera di eletti, una comunità di simili se non addirittura di combattenti, pronti all’azione, e soprattutto di essere dalla parte giusta della Storia. La sacralità dei valori da difendere, siano essi la religione o la razza, ad esempio, di fatto sancisce la radicalizzazione di quei soggetti, pronti a morire, sino a morire-uccidendo per salvaguardarli o a imporli. Si parla  per entrambi anche di martirio, sebbene con finali differenti.

GC: Eppure, appunto, i due fenomeni sono distanti ideologicamente…

GTM: Vero. Eppure nell’analisi delle idee e dei mezzi, emerge come i rispettivi radicalismi finiscono per assomigliarsi ed addirittura per influenzarsi reciprocamente, in quel che è ormai noto come estremismo cumulativo. Ad ogni azioni violenta di un soggetto, individuo o gruppo, di una fazione corrisponde sempre un aumento dell’ estremismo violento dell’altro, fra esternazioni verbali ed azioni vere e proprie. È un circolo vizioso che non si limita a creare una cultura violenta ma si alimenta attraverso la sofferenza, il livore, il desiderio di rappresaglia che rischiano di ampliarsi, e già lo si vede con il jihadismo, e diventare cultura vera e propria.

GC: Come inquadrare in tutto ciò il cospirazionismo di cui si legge nel titolo?

GTM: E’ ormai evidente da parecchio tempo, complice anche la pandemia, di come vi sia un approccio di tipo ‘cospirazionista’ nel cercare spiegazioni di una realtà sempre più complessa. Il complotto, la congiura di soggetti lontani, estranei alla propria cultura, all’identità nazionale o quant’altro compone una comunità, paiono essere una costante in molte letture o narrazioni di quanto sta accadendo. Non è certo una novità. Da sempre vi sono interpretazioni di natura complottista e lo stesso complotto ha fatto parte e fa parte del comportamento politico umano. Ora però si sta andando oltre a quello che è un tentativo, quasi banale, di comprendere fenomeni globali complessi, quali la pandemia, o prima ancora la crisi dei migranti, così come quelli locali, ad esempio la mancata rielezione di Trump nell’autunno del 2020. Sono solo esempi di fenomeni dalle numerose cause iniziali complesse, anche ideologiche, e che vengono narrate da una larga fetta dell’opinione pubblica attraverso la griglia esplicativa della congiura, sia essa voluta da uno Stato profondo, poteri forti, la solita élite ebraica, onnipresente in tutte queste letture, oppure dalla criminalità organizzata e così via. Non sono solo più opinioni. Ciò che ho voluto evidenziare, infatti, è che questo approccio è diventato cospirazionismo, ossia che il riferimento  ad una cospirazione sta  diventando una vera e propria cultura politica nazional-popolare globale, di ampio respiro geografico e sicuramente con ricadute pesanti nella gestione della politica, quella concreta, quotidiana, a tutti i livelli, da locale, internazionale e addirittura transnazionale. Le narrazioni cospirazioniste si formano e passano molto attraverso la rete, e si espandono. Complici non solo internet e l’ampia disponibilità di mezzi di comunicazione, ma anche metodi e modi attraverso cui si esplica questa cultura, abilmente utilizzati da nuovi soggetti. Ho infatti analizzato il movimento statunitense  QAnon come esempio per tutti,  e di come utilizzi la rete con una forma di ingegneria della comunicazione, fra notizie vere e fake news, ampio utilizzo dei meme e di un linguaggio proprio della gaming culture che piace alle giovani generazioni, quelle che abusano di internet, fra l’altro, sino a comporre post-verità, o meglio pseudo-verità che si considerano sacrosante e fanno opinione, finiscono per influenzare le persone, un elettorato come tutto l’insieme della politica, e sovente non solo nazionale. Un fenomeno, quello di QAnon, legato anche alle vicende elettorali di Trump e di cui sentiremo ancora parlare nei prossimi  anni. Il trumpismo, e lo si dovrebbe aver capito, non è scomparso certo con la mancata rielezione di Trump.

GC: lei parla di radicalizzazione di QAnon…

GTM: QAnon è radicalizzata proprio nel cospirazionismo. Tutte le forme di radicalizzazione considerano appunto sacri e inviolabili dogmi, principi irrinunciabili. Lo abbiamo visto con il jihadismo e la guerra agli infedeli o per l’istituzione di un Califfato. Per questo si è lottato e si lotta ancora, là dove presente, sino alla morte. Per QAnon la radicalizzazione consiste nel considerare sacro ed inviolabile l’approccio della cospirazione come  totalmente esplicativo della più moderna lotta fra il Bene e il Male. QAnon e le sue rivelazioni di cospirazioni in atto, ovviamente appartiene al Bene, e tutto il resto è da abbattere. Da qui anche la violenza, e non solo verbale, di alcuni atti come  l’assalto armato a Capitol Hill il 6 gennaio 2021, di cui QAnon è stato ispiratore e, in parte, anche guida.  Un capitolo amaro della storia politica interna americana.

GC: Nel titolo poi parla addirittura di odio…

GTM: Il titolo richiama infatti alla paura che è il primo sentimento che si prova di fronte ad azioni terroristiche, ma che negli ultimi venti anni, per intenderci dalla paura dell’11 settembre 2001, si è trasformato, e parte dell’umanità sta ora sperimentando ed esprimendo sempre più in livore, addirittura odio. Non sempre si esplicita in azioni violente vere e proprie, fortunatamente. Tuttavia, i segnali di un aumento di tale rischio ci sono e se non si pone un freno a certe narrazioni,  come quelle cospirazioniste, ad esempio, che navigano soprattutto in rete, quell’odio, per ora espresso soprattutto nei siti social, potrebbe risultare di difficile controllo. Fra la paura e l’odio, infatti, vi è molta rabbia, che dalle piazze vere si è spostata in quelle virtuali, diffondersi e crescere per poi ritornare nelle vie e cortei delle nostre città, e che, appunto, crea una cultura che chiama alla violenza. C’entrano poco le vecchie ideologie, se non per opportunismo operativo, come negli scontri fra no-vax facinorosi, soggetti legati all’estrema destra violenta e forze dell’ordine a Roma, nell’ottobre scorso e l’attacco alla sede della CGIL. L’ideologia c’entra poco e addirittura non vi è segno di cultura, quanto invece c’è parecchio l’apporto di  pregiudizi ed ignoranza, con la supponenza di chi ritiene di sapere senza dover conoscere. Su questo “ignorare” è, quindi, necessario  lavorare per contrastare nuove forme di violenza anche politica che, con i timori cospirazionisti che la alimentano, rischiano di diventare  una cultura popolare sempre più diffusa nel nostro mondo occidentale.