29 Gennaio 2024

Alessandra Tarquini riflette sul confine tra antisemitismo e antisionismo

Le università non siano neutrali: anche col peggior governo di Israele, sempre contro l’antisemitismo

Noi nasciamo per diffondere conoscenza e spirito critico, capacità di rispettare le idee degli altri e di assumere un punto di vista forte e credibile perché fondato sul sapere. Per questo dobbiamo prendere posizione

Qual è il confine fra l’antisemitismo e l’antisionismo? Non è certo una domanda nuova, ma dal 7 ottobre 2023 siamo tornati a porcela. Quel giorno Hamas ha lanciato cinquemila razzi, dalla striscia di Gaza contro Israele, in venti minuti. Ha ucciso circa milleduecento persone, ne ha ferite seimila e rapite duecentocinquanta. Ha mutilato e violentato decine di donne. Ha accoltellato neonati. I primi a morire sono stati i ragazzi che si trovavano ad un festival di musica, certo non erano coloni in Cisgiordania. Se Hamas avesse la forza militare di Israele, oggi lo Stato ebraico non esisterebbe.

Eppure, da allora, in Europa e in America, milioni di persone protestano contro il premier Benjamin Netanyahu che ha reagito bombardando e invadendo Gaza. Alcuni dicono, «from the river to the sea, Palestine will be free». Il 21 ottobre 2023, in una manifestazione a Milano, è comparso un disegno di Anna Frank con la kefiah, il copricapo arabo, nelle mani di una ragazza che ha dichiarato: «Israele sta facendo la stessa cosa che la Germania ha fatto con gli ebrei». Nel novembre 2023, il «Comitato studenti per la Palestina» dell’Università di Siena ha chiesto al rettore di interrompere i rapporti con gli atenei israeliani, come hanno fatto molti collettivi studenteschi. Più recentemente, il 22 gennaio 2024, mille iscritti dell’Università di Cagliari hanno presentato al Senato accademico un documento nel quale chiedono di intensificare i rapporti con le istituzioni accademiche palestinesi e di rescindere l’accordo sottoscritto con l’ateneo di Haifa.

Di fronte a questa mobilitazione corale, vi è chi pensa che i giovani esprimano legittimamente la loro protesta contro il governo israeliano, intento a eliminare Hamas e a utilizzare qualunque mezzo per raggiungere questo obiettivo. Altri ritengono che nei cortei vi sia la versione moderna di un intreccio antico: quello fra antisionismo e antisemitismo, due fenomeni che, in linea teorica, sono indipendenti l’uno dall’altro, mentre nella realtà si sovrappongono, come dimostrano alcuni recenti sondaggi e come emerge dalla storia degli ultimi ottanta anni.

Una ricerca dell’Istituto Cattaneo di Bologna sull’evoluzione dell’antisemitismo in alcuni atenei del Nord Italia, prima e dopo il 7 ottobre, rileva che attualmente per il 17% degli intervistati «gli ebrei muovono la finanza mondiale a loro vantaggio», mentre il 31% crede che approfittino dello sterminio nazista per giustificare Israele. Il livello più elevato di consenso lo raggiunge l’affermazione che equipara il comportamento dello Stato di Israele a quello della Germania nazista. Questa, infatti, raccoglie addirittura il 46% dell’assenso degli studenti. Se distinguiamo i ragazzi in base alle loro preferenze politiche notiamo che mentre a destra esiste un antisemitismo cospirazionista, a sinistra l’avversione si esprime considerando gli ebrei responsabili di un presunto genocidio dei palestinesi. E, infine, a parità di posizione politica, di titolo di studio dei genitori, di religiosità, l’intolleranza antiebraica si riduce col crescere del voto ottenuto all’esame di maturità. L’indagine dell’Istituto Cattaneo colpisce per un dato. Dopo il 7 ottobre 2023, l’affermazione antisemita che ha riscosso maggiore consenso è quella che proviene da sinistra. Secondo i ricercatori, mentre l’avversione di destra è rimasta tutto sommato invariata, la cifra di chi è convinto che gli ebrei si comportino come i nazisti «cresce nei giorni immediatamente successivi alla strage terroristica, molto prima della risposta del governo israeliano. È una reazione a quell’evento, non agli eventi successivi. Questa quota passa, infatti, dal 42% che si registra prima del 7 ottobre, al 46,2 dopo quella data, e continua a crescere nei giorni successivi». Dunque, l’antisemitismo non è provocato da Benjamin Netanyhau o dal comportamento predatorio dei coloni in Cisgiordania. Esiste prima e riemerge nei momenti drammatici del conflitto israelo-palestinese.

A ben guardare, tutto ciò non costituisce una novità. Sin dagli anni Cinquanta, e poi in modo sempre più evidente dal 1967, dalla guerra dei Sei giorni, l’antisionismo assunse le forme del moderno antisemitismo. Allora una parte della sinistra, di fronte ai successi militari di Israele, che occupò un territorio quattro volte più ampio di quello assegnatogli nel 1948, descrisse i palestinesi come un soggetto rivoluzionario in lotta contro l’imperialismo degli ebrei nuovi nazisti. Su «l’Unità» vi fu chi paragonò la guerra lampo del giugno 1940 alle operazioni di Moshe Dayan nel Sinai. Questa narrazione esplose nel 1982, durante il conflitto nel Libano, quando il massacro dei campi profughi di Sabra e Chatila, causato dai cristiani falangisti libanesi, con la complicità degli israeliani, provocò il comprensibile shock dell’opinione pubblica internazionale. A Roma, sfilando sul lungotevere, in una manifestazione organizzata dalla Cgil, alcuni lavoratori gridarono: «Ebrei ai forni! W l’Olp! Morte a Israele». A rafforzare questa idea, vi fu anche chi si soffermò sulla differenza fra il Dio dell’Antico Testamento e quello cristiano, proponendo un inveterato luogo comune antisemita. Sul «Manifesto» parlarono del «Dio violento di Israele» chiedendosi perché si fosse taciuto così a lungo «sullo sterminio» dei palestinesi e sostenendo che lo Stato ebraico aveva «scelto di incarnare» «la faccia cupa, che sradica gli alberi, distrugge villaggi, uccide gli inermi» del Dio della Bibbia.

Dunque, per criticare il governo israeliano, non da oggi vi è chi chiama in causa la storia e la cultura del popolo ebraico, come se per spiegare la guerra d’Algeria qualcuno avesse fatto ricorso alle caratteristiche originarie dei francesi, dei Franchi e dei Galli. È una modalità che compare ciclicamente e non stupisce. Del resto, gli ebrei uccisi ad Auschwitz suscitano empatia, li ricordiamo il 27 gennaio nella Giornata della Memoria, mentre quelli vivi, e a maggior ragione gli israeliani, no. La sera del 7 ottobre tutti eravamo sconvolti e inorriditi. Subito dopo, l’orrore ha lasciato il posto al «però anche voi», come se l’angoscia di fronte al trauma subito dagli israeliani, fosse un sentimento fragile, capace di attenuarsi di fronte al più sentito bisogno di esprimere solidarietà per gli abitanti di Gaza. Molti hanno dichiarato di essere vicini a tutti i popoli che soffrono e che, dunque, di fronte al dolore e alla morte non c’è da scegliere. Verrebbe da chiedersi: quando gli anglo-americani hanno bombardato Dresda, o Milano, li consideravamo criminali di guerra? I romani del quartiere San Lorenzo, distrutto dalle bombe il 19 luglio 1943, ostaggi del regime fascista e totalitario, hanno mai pensato che gli alleati non dovessero utilizzare tutti i mezzi possibili per sconfiggere il nazi-fascismo?

Alcuni docenti vorrebbero interrompere i rapporti con i colleghi israeliani, ma magari non con quelli dell’Iran che finanzia Hamas. Altri, come il rettore di Cagliari Francesco Mola, dichiarano che le Università devono essere neutrali. Un professore del suo ateneo, il filologo Paolo Maninchedda, gli ha risposto: «Noi insegniamo, con David Hume, che dai fatti non discendono prescrizioni, cioè che non vi è alcun fondamento razionale di qualsiasi assolutismo». «Questo non significa essere neutrali». Noi nasciamo per diffondere conoscenza e spirito critico, capacità di rispettare le idee degli altri e di assumere un punto di vista forte e credibile perché fondato sul sapere. Per questo, anche di fronte al peggior governo della storia di Israele, condannato a subire il giudizio del suo popolo, che dopo ottanta anni vive oggi una catastrofe, prendiamo posizione e combattiamo contro l’antisemitismo intorno a noi.