Fonte:
Riflessi Menorah
Autore:
Massimiliano Boni
Marcello Flores ripercorre l’origine di 6 parole chiave per comprendere usi e abusi della memoria e della storia oggi; anche per leggere ciò che avviene in Israele e a Gaza
Professor Flores, da poco è uscito per Donzelli il suo ultimo lavoro, “Le parole hanno una storia”. Innanzitutto: perché la necessità di un libro come questo?

Perché in questo periodo l’uso di molti termini che hanno caratteristiche precise, da un punto di vista storico e giuridico, vengono usati con molta disinvoltura, a partire dai mass media, generando il rischio di confusione, assimilando concetti e punti di vista anche molto diversi. E così è nata l’idea di fare il punto su alcune parole, su come utilizzarle. Mi sembrava cioè che in questo momento fosse urgente questa operazione più che in passato.
Oggi la stagione dei diritti universali sembra di nuovo in profonda crisi: la guerra è tornata ad essere un elemento anche europeo, dopo la Jugoslavia negli anni Novanta e la fine della II Guerra mondiale nel 1945. Possiamo individuare le cause di questo nuovo disordine?
Sicuramente oggi assistiamo a una serie di situazioni contingenti, come le crisi militari in corso in Ucraina e in Palestina, dove l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Israele hanno innescato uno scontro bellico significativo ancora in corso. Tuttavia, io credo che se si vuole davvero evidenziare il motivo unificante di questa crisi del diritto umanitario che stiamo vivendo oggi, allora la ragione sia da ricercare in una spiegazione che va oltre il singolo episodio, per quanto grave, e il singolo casus belli.
A cosa si riferisce?

Al fatto che da alcuni anni stiamo vivendo al ritorno di un modello di Stato forte, che può essere descritto con il termine sovranismo. Il sovranismo è la convinzione di molti paesi di poter agire unilateralmente, spingendosi fin dove la propria forza militare ed economica glielo consente. Si tratta di un modello in profondo contrasto con tutte le scelte fatte dopo la Seconda guerra mondiale, che portò alla nascita di istituzioni internazionali multilaterali e sovranazionali, come l’Onu, le varie Corti internazionali, ma anche le organizzazioni a tutela della salute o per favorire il commercio. Oggi il sovranismo ritiene di poter piegare tali istituzioni ai propri interessi, e questo spiega la crisi dei diritti fondamentali cui assistiamo, causata dalla perdita di importanza di un sistema internazionale multilaterale.
Una lettura radicale, che prende piede in Europa e negli Usa da alcuni anni, ritiene che sia l’Occidente la principale causa della violazione dei diritti umani: non solo oggi, ma nella storia dell’umanità. Lei mette in evidenza come la realtà sia più complessa, e come la cultura dei diritti umani sia nata proprio in Europa e grazie a giuristi europei e al sostegno Usa: dunque, che giudizio dà delle accuse Woke?

La storia dei diritti umani è una storia complessa e complicata che dimostra come in Occidente, ma non solo in Occidente, siano sempre convissute posizioni differenziate, spesso opposte. L’Europa, ad esempio, negli anni ’30 e ’40 ha conosciuto l’ascesa e poi il dominio dell’hitlerismo, ma subito dopo è stata capace, con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la firma della Carta atlantica e di altri trattati internazionali, di costruire l’architettura del diritto umanitario. Pensare quindi che si possa descrivere a senso unico la storia di un paese o dell’Occidente è una convinzione che va contro la storia e che esprime solo una posizione ideologica.
La seconda parte del libro è dedicata alla ricostruzione della storia di sei parole oggi molto contese: apartheid, colonialismo, crimini di guerra, pogrom, sionismo. Innanzitutto una prima osservazione: se siamo tutti d’accordo che i primi 5 termini hanno un’accezione negativa, perché affiancare a questo anche il sesto? Che “equivoco” c’è oggi attorno al sionismo?
Il sionismo è un’altra di quelle parole su cui si fa oggi una grande confusione; forse più di altre. Oggi il sionismo è diventato sinonimo del colonialismo della peggiore specie, la manifestazione di violenza e oppressione. In questo modo non si tiene conto, al contrario, del significato storico del termine, e che dentro la parola sionismo sono convissute posizioni anche divergenti e contraddittorie. Parlare oggi di sionismo al singolare è per questo riduttivo e poco significativo. Per quel che riguarda gli altri termini, ho cercato di darne una definizione molto ristretta, utilizzando poche parole, piuttosto semplici ed immediata comprensione, in modo che la definizione potesse essere compresa da chiunque. Ho lasciato poi ad alcune letture, riferite a documenti storici, lo spazio per approfondire la nascita di quelle parole e l’esatto termine che occorre loro attribuire.

Come giudica l’uso che si fa di queste parole oggi nel dibattito politico e pubblico?
In alcuni casi l’uso dei termini può essere corretto, in molti altri no, così assistiamo a un utilizzo molto ambiguo di parole che hanno invece un significato ben delimitato. Prenda ad esempio il caso della parola “apartheid”. Il termine è nato per connotare un’esperienza storica precisa: quella del Sudafrica, che aveva leggi e norme giuridiche e stringenti ben definite; poi è accaduto che in alcune normative internazionali, contro le discriminazioni razziali, si è fatto uso della parola con un significato diverso e più ampio di quella originaria, cosicché oggi apartheid è diventato sinonimo di discriminazione razziale. Io credo che tale utilizzo sia improprio, perché apartheid, per capirci, è quella situazione in cui una parte della popolazione è obbligata a frequentare scuole separate, ospedali separati, mezzi pubblici separati, addirittura vivere in città separate dal resto della popolazione. Oggi, dunque, non esiste apartheid in nessuna parte del mondo, mentre purtroppo sono molto diffuse le discriminazioni. Utilizzare la parola apartheid per condannare la discriminazione che alcune comunità subiscono direi che è un uso strumentale della parola, perché la carica di un peso morale al fine di condannare una certa situazione.
L’ultima domanda che le porgo riguarda l’attualità a Gaza, da cui non possiamo sfuggire affrontando i temi che lei tratta nel volume. Secondo lei ha senso distinguere oggi a Gaza tra crimini di guerra e genocidio?

Anche con la parola genocidio ci troviamo a registrare il rischio di una forte strumentalizzazione. Per parlare di genocidio si deve aspettare un pronunciamento di una Corte internazionale, il che richiede il tempo necessario. Prima di allora, credo che non si possa utilizzare liberamente la parola genocidio per quel che accade a Gaza, anche se certo ritengo che sia legittimo porsi la questione tra storici, giuristi, analisti internazionali. Quando però il termine viene utilizzato nell’arena pubblica, cosa cominciata con le prime manifestazioni nei campus americani da parte degli studenti pro Pal e poi diffusasi in Europa, ecco che il rischio di strumentalizzazione è subito presente. Oggi sembra quasi che per condannare la violenza dell’esercito israeliano a Gaza l’unica parola utile sia quella di genocidio, cosicché chi non ne fa uso viene quasi accusato di essere giustificazionista. Sono ormai molti gli appelli da parte di centinaia di persone, quali ad esempio quelle del mondo dello spettacolo e della cultura, che accusano Israele di genocidio. Questo ha determinato una sorta di cortocircuito in cui c’è quasi una specie di eccitazione morbosa nel poter accusare, non solo il governo Netanyahu, ma lo stato di Israele e in qualche caso tutti gli ebrei di genocidio; un termine, ricordiamolo, inventato per cercare di capire cosa fosse lo sterminio degli ebrei d’Europa. In questo modo si cerca anche di ridimensionare la Shoah, cosa già avvenuta se è vero che circa il 50% degli italiani ritiene che il comportamento dell’esercito israeliano è simile a quello dell’esercito nazista durante la Seconda guerra mondiale. Credo che questo corto circuito sia l’espressione di un rifiuto della realtà e della sua complessità, per favorire giudizi morali e politici definitivi che prescindono dall’analisi e dalla comprensione di quel che sta accadendo, che poi sarebbe la cosa più importante, quella che dovrebbe stare più a cuore di chiunque: terminare la guerra a Gaza.
