Fonte:
Riflessi Menorah
Autore:
Massimiliano Boni
Dario Calimani, presidente della comunità di Venezia, denuncia il clima di ostilità contro gli ebrei che si respira oggi, e che chiama in causa anche il ruolo dell’ebraismo italiano per far fronte a pregiudizi e distorsioni
Dario Calimani, da poche settimane sei stato riconfermato presidente della comunità di Venezia, una delle più antiche comunità ebraiche italiane. Vorrei partire da qui, per domandarti innanzitutto come la tua comunità vive questo clima di profonda tensione che ormai si respira anche nel nostro paese, a circa due anni dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e della reazione militare israeliana.

A Venezia la situazione è apparentemente tranquilla. Dico apparentemente, perché in superficie tutto appare come sempre, e la vita sembra scorrere normalmente. In realtà, la sensibilità che abbiamo maturato per certe situazioni fa comprendere come il sentimento popolare stia rapidamente cambiando in peggio. Qui nel vecchio ghetto, ad esempio, abbiamo registrato una serie di piccoli incidenti, almeno apparentemente, che però sono in realtà significativi.
Quali?
Abbiamo avuto gesti dimostrativi davanti alle nostre sinagoghe che definirei come minimo offensivi. Abbiamo avuto offese antisemite pronunciate ad alta voce. Abbiamo avuto gruppi di persone, anche studenti, che hanno pensato di venire qui per inneggiare a Hitler e a Mussolini, o che di fronte al monumento ai deportati si sono fatti immortalare facendo il saluto romano. Ripeto, possiamo anche classificarle come piccole provocazioni, che però sono indice di un sentimento più generale. Oggi non c’è più vergogna a mostrare il proprio sentimento ostile agli ebrei, gli antisemiti si sentono legittimati a uscire allo scoperto. Per adesso si tratta di episodi centellinati, che temo però siano indice di una situazione che potrebbe peggiorare. Del resto, sappiamo anche di albergatori e campeggiatori che rifiutano turisti israeliani. Direi che il sentimento di ostilità ormai colpisce non soltanto gli israeliani, ma gli ebrei in quanto tali.

Come presidente di una comunità hai costantemente contatti con le istituzioni locali, ma anche con il clero cittadino e, forse, con la comunità islamica locale. Qual è lo stato di salute di queste relazioni?
Prevale il silenzio. Naturalmente, per quel che riguarda la sicurezza dei nostri luoghi, questa è garantita come sempre nel migliore dei modi e con la massima professionalità. Per il resto, registro una distanza che di fatto ci isola. Da un lato, noi stessi non ci sentiamo di avvicinare chi pure sappiamo essere nostro amico, perché in questa situazione non sappiamo più se e come saremmo accolti; dall’altro lato, gli altri non ci cercano. Viviamo una sorta di isolamento. L’imbarazzo da parte di chi era nostro amico è palpabile.
Cosa pensi del linguaggio politico usato su Gaza e su Israele?

È pessimo. Quando Giuseppe Conte, ad esempio, dice che gli ebrei devono parlare, ossia devono dissociarsi, non si rende conto che ci considera a priori colpevoli, pretendendo una prova di innocenza?
E per quel che riguarda l’opinione pubblica italiana?
Non è migliore. Io ritengo che, al di là delle responsabilità imputabili al governo israeliano, dovremmo mettere in evidenza le grandi responsabilità dei media, per le modalità con cui raccontano quel che sta avvenendo. Dobbiamo considerare che il sentimento popolare oggi si forma in pochi secondi, seguendo dibattiti poco informati. I media quindi hanno un grandissimo ruolo nell’influenzare l’opinione pubblica e oggi la descrizione dei fatti è come minimo parziale, se non apertamente ostile a Israele. Il racconto della guerra a Gaza è monocorde. Oggi noi vediamo immagini che non siamo in grado di comprendere se vere o false, le opinioni sono per lo più a senso unico ed è difficile trovare qualcuno che offra una versione diversa. Senza contare che Hamas è sparito dalle analisi. Naturalmente, non sto sostenendo che quel che avviene a Gaza non sia grave, o che tutte le immagini che ci arrivano siano dei falsi, ma il punto è che non siamo in grado di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, in questo modo viene alterata la nostra percezione e valutazione della realtà. In questo l’informazione ha grandissima responsabilità. E poi, forse, c’è anche una nostra responsabilità.

Cosa intendi?
È un discorso delicatissimo. Ho l’impressione che in questi mesi abbiamo mancato quello che era il nostro principale obiettivo, ossia difendere l’ebraismo italiano. Difenderne l’immagine e il pensiero. Invece ci siamo quasi sempre preoccupati, a livello istituzionale, non di dare voce all’ebraismo italiano, ma di difendere Israele. In questo modo, agli occhi degli altri è passata l’idea che stessimo difendendo Netanyahu e i suoi ministri, compresi quelli che parlano ormai apertamente di annessione territoriale di Gaza e della Cisgiordania. Il nostro silenzio, durato troppo a lungo, ormai appare come un sostegno alla politica del governo israeliano. Ora, è vero che ogni volta che parliamo ai media è alto il rischio di essere strumentalizzati; tuttavia credo che questo non debba esimerci dal compito di rappresentare, a vari livelli, l’ebraismo italiano. Oggi questo silenzio mi preoccupa, perché noto i tanti segni dell’antisemitismo che aumenta, e mi chiedo cosa avremmo potuto dovuto fare per salvaguardare la nostra posizione.
Hai una risposta?

Avremmo dovuto tentare di impegnarci di più per spiegare cos’è davvero l’ebraismo italiano, e che legami ha con Israele. Il nostro rapporto è affettivo, culturale, religioso, ma non necessariamente un rapporto politico. Questo non è stato mai chiarito. E così oggi le persone ci chiedono da che parte stiamo, ci chiedono di dissociarci da Netanyahu, dando per scontato che il nostro legame con Israele sia anche politico, con il governo in carica e con le sue scelte. Abbiamo in genere sempre deciso di rimanere in silenzio, e questo oggettivamente è stato letto come una difesa della politica israeliana.
Ritieni che nell’ebraismo italiano sia mancato un vero confronto su quel che sta avvenendo?
All’interno dell’ebraismo italiano convivono molte posizioni e molte idee. C’è chi certamente sostiene l’attuale governo, come chi lo critica. A mio avviso questa diversità di posizione non si è mai potuta esprimere perché non è mai stato favorito un vero dibattito dentro l’ebraismo italiano. Qui, forse, anche gli intellettuali ebrei, che avrebbero potuto far sentire la loro voce, hanno preferito tacere, forse temendo la reazione ostile che avrebbero potuto subire. E quando hanno preso posizione con lettere aperte non sono riusciti a mantenere quell’equilibrio che sarebbe stato necessario, in una situazione di grande complessità come quella presente.
A tuo avviso si può recuperare questa assenza di confronto e questa pluralità di opinioni la cui mancanza che denunci?

La mia vena pessimista mi farebbe dire che ormai è tardi, e che il danno subito lo pagheremo per i prossimi anni. Quando finirà la guerra a Gaza rimarrà questo antisemitismo riemerso dalle braci, o dalle fogne. Rimarrà a lungo questo clima di odio sui social media, ormai illeggibili. L’immagine dell’ebraismo italiano silenzioso e per questo ritenuto consenziente con quel che avviene in Medio Oriente è ormai passata nell’immaginario degli italiani. Me lo dicono di continuo gli ‘amici’ di un tempo. Qualche tentativo di dissociazione c’è stato, come una lettera firmata alcuni mesi fa, che però nella sua formulazione io giudico goffa, incompleta e per questo ambigua, che non rappresentava certo l’ebraismo italiano. Qui siamo stati invece mancanti, perché chi aveva il ruolo di esprimere la posizione dell’ebraismo italiano ha preferito per lo più tacere.
Come giudichi lo stato di salute dell’ebraismo italiano, dunque?
La storia delle varie comunità ebraiche, dalle più grandi alle più piccole, la conosciamo. In alcuni casi si è impedito, in passato, il confronto anche mediante lo scontro fisico. È evidente che se queste sono le premesse poi il dibattito è impensabile. Qui a Venezia, ad esempio, ho invitato a parlare di Gaza e Israele Gad Lerner, Anna Foa, David Parenzo e Claudio Cerasa. Ma ho deciso di non far seguire un dibattito, perché si sarebbe sicuramente infuocato, forse in modo non controllabile. E ricomporre gli equilibri, in una Comunità, è poi impresa ardua. Oggi gli ebrei italiani sono di fatto molto disorientati.
Quale potrebbe essere allora il contributo dell’ebraismo italiano per migliorare lo scenario in cui siamo immersi?

È banale dirlo, ma bisognerebbe semplicemente tornare a fare cultura. Non parlo solo di noi ebrei, ma anche di chi non è ebreo, dei tanti intellettuali che avrebbero questa responsabilità. Invece anche qui molti tacciono. La realtà è che gli ebrei, loro malgrado, pesano ancora sulla coscienza dell’Occidente. Per secoli abbiamo subito pregiudizi e persecuzioni, e oggi molti vogliono liberarsi la coscienza da questo peso. Oggi molti accusano Israele di genocidio perché questo consente loro di vedere dimostrata la verità dell’accusa di omicidio rituale rivolta per secoli agli ebrei. Oggi il mostro è Israele, tornano in voga cliché e pregiudizi che sembravano dimenticati. Dovremmo essere in grado di riprendere un dialogo e un confronto con gli intellettuali di questo paese e anche con i media, smontare l’idea del complotto, perché oggi, se mi consenti un’amara battuta, l’unico complotto che vedo è quello contro gli ebrei.
