23 Agosto 2022

David Sorani riflette sulle recenti dichiarazioni antisemite del leader palestinese Abu Mazen

Falsificazione della Shoah e treni perduti

La risposta data da Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) ai giornalisti che a Berlino lo interpellavano a cinquant’anni dalla strage compiuta da Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco 1972, oltraggiosa nei confronti della storia e della memoria della Shoah e falsa rispetto alla politica israeliana, non desta nessun stupore, se riandiamo al suo passato di revisionista/riduzionista dell’Olocausto, già a partire dalla sua tesi di dottorato sul sionismo, e al suo atteggiamento perennemente ostile a Israele. Nel contesto, ci sono piuttosto due aspetti di fondo su cui riflettere: l’uso anzi l’abuso e la distorsione della realtà storica della Shoah per accusare Israele; le occasioni puntualmente mancate dalla dirigenza palestinese per promuovere efficacemente la propria causa politica, di cui questo discusso incontro col cancelliere Olaf Scholz rappresenta solo l’ultimo esempio.

È purtroppo ricorrente, da parte del mondo islamico schierato su posizioni fortemente antisioniste ma talvolta anche in settori politici occidentali, l’accusa a Israele di riproporre contro i palestinesi lo sterminio subito dal popolo ebraico: espressioni quali “vittima che si trasforma in aguzzino” o altre analoghe bestialità circolano sovente, soprattutto durante fasi di grande tensione e nel corso di operazioni difficili e dure, come recentemente quelle sostenute contro il terrorismo a Gaza. Perché ciò avviene? Si tratta di un meccanismo facile, di una nuova persecuzione prodotta attraverso un ribaltamento dei ruoli. A monte di questa tesi aberrante c’è naturalmente la semplicistica equazione Israele = ebrei; partendo da questo presupposto, ecco che le azioni di difesa di Israele in funzione anti-palestinese divengono persecuzioni degli ebrei su nuove vittime, mentre essi si trasformano emblematicamente da vittime per eccellenza in aguzzini. E, con questa folle invenzione di trasferimento su altri delle proprie sofferenze passate, si comunica l’idea distorta di una “vendetta” praticata su un popolo terzo. Di fatto, si tratta di una ulteriore forma di persecuzione anti-israeliana/anti-ebraica, perché gli israeliani/gli ebrei – genericamente accomunati – divengono così un nuovo stereotipo negativo, dato che si produce una nuova falsa accusa nei loro confronti. Inoltre, in questo modo si genera una falsificazione chiara (e immorale, come giustamente nota il premier israeliano Lapid) dell’Olocausto: ogni dura azione militare di risposta/prevenzione diviene sterminio sistematico, con un doppia perversione di significato nell’uso del termine: da un lato sminuire il carattere e il ruolo storico della Shoah, dall’altro criminalizzare ogni intervento militare di protezione. Tutto ciò è generato, alla fonte, da una fondamentale e colpevole ignoranza storica circa lo sterminio del popolo ebraico, la sua genesi, il suo contesto. O dalla incapacità di comprenderlo? O dalla volontà di falsificarlo?

In questo ricercato e malevolo equivoco terminologico/semantico la dirigenza palestinese si muove da tempo, con evidenti incrementi di facile consenso mediatico, ma con scarso guadagno dal punto di vista dei concreti risultati politici. Quanto più tende a criminalizzare il suo nemico con accuse di “nuovo Olocausto”, tanto più si allontana dalla possibilità di venire a patti con lui. Quanto più tende a falsificare la non facile situazione dei palestinesi dei Territori definendola erroneamente di “apartheid”, tanto più rinuncia alla possibilità di intavolare di nuovo un negoziato con Israele. Quanto più insiste nel suo rifiuto globale di quella che continua a chiamare “entità sionista”, tanto più rende impraticabili realistiche mediazioni e possibili compromessi. Sono tanti ormai i treni perduti dai vertici palestinesi, cioè le occasioni di accordo e le strade verso un progressivo riconoscimento statale gettate malamente al vento dai suoi rappresentanti. E forse ormai i treni della pace sul binario di Due Stati per due popoli sono transitati tutti, senza che il cosiddetto fronte moderato palestinese (quello dell’Autorità Nazionale Palestinese in mano all’ex-OLP o Al Fatah che dir si voglia, per intenderci) abbia saputo intercettarlo. Nel frattempo, mentre i rappresentanti ufficiali del popolo palestinese insistevano ottusamente sulla linea del rifiuto e della denuncia a tutto campo della controparte israeliana, nel mondo palestinese il bandolo della matassa passava inesorabilmente ai settori oltranzisti dell’islamismo (Hamas, Jihad Islamica), che oggi non sono dominanti solo a Gaza ma paiono maggioritari anche nei Territori. E con questi schieramenti, che non vengono sanciti ufficialmente per l’assenza nella società palestinese di un processo democratico che porti a libere elezioni, pare proprio si possa dire addio alla pace tra israeliani e palestinesi.

Non che Israele non abbia responsabilità nell’attuale situazione di completo stallo e assenza di prospettive. La condizione negativa nel rapporto con i palestinesi è certo fondamentalmente legata all’incancrenirsi pluridecennale della questione dei Territori occupati e alla creazione in essi di insediamenti israeliani. Ma indubbiamente è al mondo palestinese che tocca il compito principale per creare a se stesso nuove prospettive politiche nazionali pacifiche e riconosciute, mentre è evidente che la priorità assoluta di qualsiasi governo israeliano (più o meno disponibile verso la componente palestinese) non può che essere la sicurezza della propria popolazione, messa ripetutamente a repentaglio dalle violenze palestinesi. Quelle violenze che l’ANP si guarda bene dal limitare o cercare di scongiurare, preferendo assecondarle tacendo o lanciare provocazioni come l’ultima di Abu Mazen invece che cercare di proporre ponti di incontro e di trattativa volti a creare un futuro possibile per lo stesso popolo palestinese.